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Curiosità | 03 luglio 2015, 14:44

Bianco, nero e Murialdo: quattro chiacchiere con l'artigiano della fotografia albese

Dal 28 giugno al 18 luglio Murialdo racconta con immagini inedite Gina Lagorio e Nuto Revelli presso il Palazzo Mathis di Bra

Foto di Silvia Muratore

Foto di Silvia Muratore

Lascia scorrere i pensieri, si fa attraversare dalle sensazioni e poi le fissa in una pellicola che è fotografia dell’esistenza, quadro fisico, materiale, che lascia libero lo sguardo dell’osservatore di vagare in una terra poetica e seducente: la Langa… e la sua gente. Per Bruno Murialdo, scattare con la macchina fotografica è come premere il grilletto di una pistola. I suoi scatti catturano immagini nel fluire inarrestabile della realtà e li restituiscono meravigliosamente agli occhi di chi non si emoziona più di fronte alla vita. È stato fotoreporter in America Latina, America Centrale, Russia, Europa dell’Est e, per l’Italia, anche in Sicilia, ad Acireale. Insieme all’assistente Silvia Muratore, collabora con i quotidiani La Stampa e La Repubblica. Attualmente, sta portando avanti un progetto di lavoro in Germania, ma la sua attività inizia già nel lontano 1966.

Lo abbiamo incontrato nel suo studio, ad Alba. Un luogo denso di ricordi, testimonianze e di oggetti legati alla fotografia. C’è anche la prima macchina fotografica, che suo padre gli comprò a Panama e con la quale cominciò a masticare questa disciplina con la sua voglia di conoscere, esplorare, fornendole un nuovo sguardo, il suo. Perse ogni foto di quell'ultimo viaggio, ma non la passione per la fotografia, che gli permette ancora oggi di comunicare pezzi di esistenza, brani di paesaggio, con un'anima pulsante e profonda, che sa entrare in immediata sintonia con chi gli sta vicino e con un obiettivo sempre pronto ad aprirsi sul futuro. In quasi un'ora di intervista mi ha messo addosso la voglia di andare alla ricerca di storie, che non necessariamente scorrono lontano da noi.

E che lui racconta continuamente, perché il mondo è un dipinto di troppi colori, anche quando è ritratto in bianco e nero.

Quanti anni hai?
«L’anagrafe dice sessantacinque».
Quanti te ne senti?
«La testa e il fisico parlano di venticinque, trenta».
Da piccolo che cosa sognavi di fare?
«Il fotografo. Iniziai a fotografare da ragazzino, grazie ai viaggi e a mio padre, che mi regalò la prima macchina fotografica, compresa di rullino, all’età di quindici anni comprandola a pochi dollari in duty free a Panama. Sono sempre stato attratto dalla possibilità di fissare le persone o i luoghi in uno scatto, di riuscire a congelare sguardi, sorrisi, paure, sentimenti, paesaggi, le emozioni insomma. Il mio rapporto con la fotografia si può definire un colpo di fulmine, uno di quegli amori che sbocciano senza bisogno di chiedersi il perché e il per come. Mi appassiona scoprire la vita che sprigiona tutta la sua carica emotiva e, avendo sempre fotografato, fin da piccolo e anche grazie all’esperienza di bottega, è naturale usare questo mezzo».
Qual è stata la foto che ti ha fatto innamorare?
«Ho vissuto per dodici anni in Cile e in quel tempo diventavo matto per le foto che mio cugino Walter realizzava con una macchinetta, ricevuta in regalo e che poi sviluppava in bianco e nero. La prima foto che ho scattato? Ne ho fatte tante. Le primissime le ho perse, come purtroppo ho smarrito tutte le altre che scattai con quella prima macchina fotografica. Tuttavia, conservo il filo che le univa: la passione».
Che cos’è la fotografia per te oltre che una professione?
«Anche se la fotografia è diventata il mio lavoro e il mio pane, io non mi sono mai sentito un fotografo. Per me la macchina fotografica ha la stessa valenza che il pennello ha per il pittore. Penso che la fotografia sia un mezzo di comunicazione attraverso il quale emozionare. La mia intenzione è di tirare fuori dall’obiettivo le emozioni che si celano e vivono all’esterno. Riuscire a ritrarre emozioni e sensazioni è fantastico. Per non parlare della possibilità di raccontare delle storie e dell’anima che potrebbe sfuggire al primo sguardo, ma che una volta intrappolata in una fotografia, diventa icona».
C’è ancora qualcosa che riesce a stupirti?
«Tutto. Bisogna solo tenere gli occhi aperti sempre. Anche le piccole cose possono suggerire dei momenti straordinari. L'artista è uno scopritore che cerca le chiavi per aprire la porta delle emozioni e gioisce quando ci riesce».
Hai un modello al quale ispirarti?
«Henri Cartier Bresson, che diceva: «Osservare dove gli altri sanno solo vedere» e poi molti fotografi del secolo scorso, che hanno raccontato emozioni. Ho avuto anche la fortuna di lavorare con Aldo Agnelli, il fotografo di Fenoglio. Grazie a lui ho scoperto questo territorio con le sue tante sfumature e l’ho raccontato in forma unica, fissando alle pareti un mondo che non c’è più. Una volta passavo sotto Serralunga d’ Alba e vedevo il grano, ora ci sono le vigne. Ricordo anche la collaborazione con Nuto Revellli per il lavoro L’anello forte e una mostra a Palazzo Ducale a Genova che gli ho dedicato».
Che tipo di macchine usi per scattare?
«Ho sempre usato Canon, ma non esistono macchine fotografiche migliori rispetto ad altre o in grado di fare buone foto. È sempre il fotografo che fa la differenza. Per fotografare una storia non servono obiettivi o filtri giusti. Fotografare vuol dire cercare nelle piccole cose quel che uno ha capito con la testa. La grande foto nasce così».
Avere uno stile è importante secondo te?
«Lo stile è qualcosa di naturale, spontaneo. Quando ti piace una cosa la fai in un certo modo e gli altri ti riconoscono. Io lavoro di passione. Per me la fotografia è la derivazione della pittura. Credo che una foto sia un po' come un quadro in cui oltre al contenuto e ai fatti ci sono anche le emozioni, che sono importanti quanto la storia. Quando in un lavoro c’è verità, ricerca e coinvolgimento si sente».
Quali sensazioni vorresti trasmettere nelle persone che guardano le tue fotografie?
«La fotografia riguarda la comunicazione. È come un quadro, che può piacere o meno, ma non è importante fare collezione di belle immagini. Bisogna sviluppare delle storie, che ognuno leggerà a modo proprio. Anche dietro casa si possono trovare delle cose interessanti da raccontare».
È storia anche una singola foto?
«Assolutamente sì. Ogni fotografia suggerisce e racconta un’esperienza diversa, perché ogni uomo ha in sé una storia. La cosa più importante è non stare fermi ad aspettare che la storia arrivi, ma spendersi e andare a cercarla».
Qual è la sfida di ogni scatto?
«Riuscire a cogliere l’essenza della vita. È una continua sfida con il flusso straordinario della realtà. Non puoi stare chiuso in salotto, la vita non ti aspetta, è faccia a faccia con te e non la puoi pianificare».
Quali sono i lavori a cui sei più affezionato?
«Certamente ci sono dei lavori a cui sono più affezionato e penso alla Marilyn (una fotografia straordinaria con la quale Bruno sembra dialogare con lo sguardo, mentre ce ne parla, ndr), ma ogni foto ha una sua vita, destinata a percorrere la storia, testimoniando il suo tempo. Ho imparato ad amare delle fotografie, che ho tirato fuori per caso dall’archivio, sorprendendomi persino di averle scattate io stesso».
Per quale immagine vorresti essere ricordato?
«Non importa per quale immagine sarò ricordato, l’importante è che le mie foto lascino traccia del mio passaggio. Fotografare per me è necessario, mi fa sentire vivo, è la cosa giusta da fare, quella che, anche se sei a pezzi, quando torni a casa, ti fa sentire leggero e felice».
Bianco e nero o colore?
«Sono affascinato dal bianco e nero, perché regala qualcosa di diverso, trasmette romanticismo e poesia. È un binomio straordinario e malleabile che non distrae, ma serve a costruire delle sensazioni così come lo sono la forma, la luce, le geometrie, che sfociano in un lavoro pensato, stimolando la curiosità. Il bello del colore, che spesso gli editori richiedono, può influenzare lo sguardo a scapito del contenuto, mentre il bianco e nero è come un libro senza figure, lascia più spazio all'immaginazione e regala la possibilità di vedere molte più cose».
Che rapporto c’è tra bellezza e verità in una fotografia?
«La verità è un elemento dal quale la fotografia non può prescindere, mentre la bellezza è figlia del punto di vista. Ognuno ha la possibilità di raccontare la propria verità ed esprimere la sua idea di bellezza. È anche questa una magia: un volto o un paesaggio fotografato può non finire mai di comunicare, di rivelare delle cose».
Questa è l'epoca del photoshop, del ritocco… la tecnologia ha barato il gioco?
«La tecnologia è una grande opportunità, un valore aggiunto all’esperienza e non ha cambiato i connotati della fotografia tradizionale. L’avvento del digitale, se da una parte ha permesso a tutti di avvicinarsi alla fotografia, dall’altra ha consentito di sfruttare le potenzialità di un mezzo straordinario. Tuttavia, non bisogna cedere all'inganno di pensare che di fronte a queste soluzioni sia tutto più semplice e alla portata. Nel caso della foto digitale si è di fronte a un processo tutto svolto al pc, che offre innumerevoli possibilità di risultati, che richiedono, oggi come allora, qualità, professionalità e competenze. La fotografia è un linguaggio espressivo piuttosto che visivo e il supporto dove si raccoglie il proprio lavoro è secondario. La mia bacinella non è più nella camera oscura, ma è diventata il monitor del computer. È cambiata la grammatica delle immagini, ma non la logica».
La tua paura più grande?
«Quella che spariscano le botteghe artigiane della fotografia. Purtroppo sta già succedendo. Il fascino della bottega è finito. Oggi chi intende svolgere questo mestiere deve saper sperimentare nuove strade, prendersi dei rischi e creare qualcosa di nuovo, perché il mercato è esigente e richiede versatilità, coniugata a fantasia ed innovazione. Io mi sono allenato in Cile a questo tipo di difficoltà e, comunque, è giusto che ci sia un'evoluzione, dai cambiamenti nascono spesso cose meravigliose».
Che cos’è la curiosità?
«La curiosità ti fa vivere ed è l’anima di questo lavoro. Se non sei curioso sei morto ed è impossibile avere un’attenzione per quello che hai intorno e di conseguenza fotografarlo. Curiosità è non fermarti alla superficie e girare intorno alle cose, andarci dietro, sopra, sotto, di fianco, di giorno, di notte. Andare sempre un po’ più in là».
La critica più bella che hai ricevuto?
«Ho sempre avuto grandi soddisfazioni (Silvia Muratore ci svela che Carlin Petrini ha scritto di Bruno, definendolo nel titolo dell’articolo: il fotografo di Panama, ndr). In genere non mi curo dei giudizi. Il succo della mia vita è quello di non essermi mai fatto condizionare da ideologie o dai rapporti umani. Sono slegato da tutto e non mi piace l’idea del branco, un fenomeno che appiattisce e sottrae identità. La libertà mi ha dato la possibilità di accumulare lavoro ed esperienza. La pensione? Non ci penso affatto. Anzi, desidero continuare a vivere intensamente la fotografia per raccontare storie e idee».
La prossima mostra che farai?
«Sono a Bra, a Palazzo Mathis dal 28 giugno al 18 luglio con una mostra su “Gina Lagorio inedita” e “La Spoon river contadina. Omaggio a Nuto Revelli” (visitabile gratuitamente dal lunedì al venerdì in orario 9-12 e 15-18 e il sabato e la domenica dalle 9 alle 12, ndr) Intanto, ho da poco pubblicato il libro Paesaggi del vino e del cielo, in cui sono raccolti immagini e testi, che nascono direttamente dal cuore. Si tratta di un una novità editoriale, che racconta, come nessuno prima, l’essenza della Langa nel mondo, come inedito biglietto da visita. Mi piace molto la dimensione della scrittura e sviluppare un racconto, seguendo i binari paralleli della penna e della fotografia. Cosa molto complessa e allo stesso tempo interessante, perché dà la possibilità di esprimere la mia sensibilità attraverso due strumenti, che sono diversi, ma complementari. La fotografia è più urgente, perché a volte si è davanti a situazioni e combinazioni che vanno catturate. La scrittura, come la pittura, può essere anche successiva, all’immediatezza può associarsi la riflessione, la ricostruzione, mentre la fotografia è istante, momento».
Che cosa diresti a un aspirante fotografo?
«Lavorare e non pensare al tipo di macchina, alle sue sofisticazioni o ad altri fotografi. Piuttosto, usare la testa e la luce. Leggere libri, visitare mostre, non perdere mai la curiosità. E poi la volontà rende sempre tutto possibile».
Specialmente se dietro alla reflex batte un cuore che va alla velocità della passione.

S.Gu.

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