/ 

In Breve

| 18 settembre 2016, 10:49

“L’eftate addoffo”

Ecco cos’è l’amicizia nell’universo mucciniano, una bellissima sfera di cristallo da tenere sul comodino e rovesciare a neve quando ci si vuole illudere d’aver vissuto qualcosa di così imperfetto da risultare perfetto.

“L’eftate addoffo”

 

Nato dalla blesa crasi fra il regista Gabriele Muccino (anche co-sceneggiatore) e il cantautore Lorenzo “Jovanotti” “l’estate addosso” è un film che tenta di descrivere il rito di passaggio di due adolescenti tra la fine del liceo e le scelte dell’età adulta riuscendo nel difficile tentativo di trasformare quella che dovrebbe essere una linea d’ombra fitta d’inquietudini e nevrosi in un ammasso di stereotipi che sembra l’incubo d’un pubblicitario fallito.

Marco, il tipico diciottenne romano di buona famiglia, si trascina tra la fine degli esami di maturità e l’inizio d’un’estate che si preannuncia vuota come la Roma dei mesi caldi affogando in una noia intervallata da monologhi sulla morte talmente banali da rasentare la comicità involontaria. Un incidente con lo scooter, che gli varrà un risarcimento di tremila euro, gli consentirà di realizzare il suo sogno e cioè quello di volare in California e passare un periodo a San Francisco da amici di amici, solo che quest’originalissima(?) ambizione verrà molestata da un’inattesa compagna di viaggio e cioè Maria (detta “la suora”) con la quale Marco ha passato cinque anni di liceo scambiando si e no due parole e che odia profondamente considerandola una bigotta.

Ovviamente Maria è bellissima ma è travestita da sfigata (come nelle peggiori commediole americane) ed il suo essere così rigida deriverebbe in parte da una famiglia d’origine destrorsa in parte da un padre che conserverebbe addirittura i vinili coi discorsi originali del Duce, riduzione di complessità per la quale il buon Gabriele meriterebbe un soggiorno-premio a Predappio, bendato e con un’ampia scorta di olio di ricino.

Quando i due litigiosissimi protagonisti approdano a San Francisco ad aspettarli c’è una coppia di amici che poi si riveleranno essere “partners” (cioè gay) e la cosa sconvolgerà Maria al punto di definirli dei pervertiti ma la stretta convivenza e le reciproche confessioni, complici anche le splendide passeggiate per la città, cambieranno completamente le carte in tavola.

E’ vero che esiste ancora un’America omofobica e razzista (e lo spettro d’una possibile ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca preoccupa in tal senso la parte più progressista degli USA) ma pensare che nel 2016 una ragazza possa ancora scandalizzarsi per una cosa del genere non è solo impensabile ma addirittura ridicolo. Il suo diventare “gay-friendly” in due giorni fino al punto d’invaghirsi di uno dei due coinquilini è surreale quasi quanto la trasformazione di Marco da suo acerrimo nemico ad innamorato perso o la crisi che i due coinquilini attraverseranno nel confrontarsi con due ragazzi di gran lunga più giovani e più immaturi di loro.

L’unica parte potenzialmente interessante (potenzialmente) è quella che racconta in flashback la genesi dell’amore fra i due ragazzi americani ma è troppo lunga  e il tormento che il regista vorrebbe esprimere, amplificato dalla mentalità decisamente ristretta dello Stato di loro provenienza e cioè la Lousiana, è come annacquato da un senso di compiutezza che rende il ricordo non un prezioso sedimento della passione ma una finzione che edifica un’altra finzione.

I personaggi de “L’estate addosso” soffrono in modo letterario ma i loro modelli di riferimento non sono Goethe o Musil e neanche gli ingiustamente dimenticati Kerouac and co; la loro imitazione d’inquietudine è quasi perfetta ma quel quasi resta “addosso”per tutta la durata del film e non c’è nulla di tragico nel quadrilatero d’amicizie che si compone strada facendo, cosa che può andar bene perché non è detto che tragico sia sempre sinonimo d’intenso, ma neanche si avverte l’argentino tintinnare della leggerezza perché la banalità dei dialoghi e l’unidimensionalità dei personaggi  (più macchiette che maschere) precipitano la trama in una superficialità davvero imbarazzante.

Nei film italiani di Muccino qualcuno deve all’improvviso alzarsi in piedi e urlare contro il Vuoto le proprie insicurezze, lo facevano i trentenni ne “L’ultimo bacio” e lo fa Matt (il gay moro) contro la sagoma nebbiosa del Golden Gate, un gesto che vorrebbe essere liberatorio-terapeutico e che invece suona patetico come le metamorfosi dei suoi personaggi femminili che sembrano scuotersi di dosso il proprio ruolo sociale solo attraverso l’isteria o le iperboli emotive.

Una domanda che sorge spontanea è com’è possibile che due diciottenni che studiano inglese, presumibilmente in una scuola privata, non sappiano che San Francisco è da sempre la culla della libertà sessuale e della difesa dei diritti civili? Come possono non sapere niente di Harvey Milk e del quartiere Castro? E’ come se vivessero in una bolla spazio-temporale protetti da un’insicurezza che vorrebbe intenerire o sedurre ma che ci lascia invece indifferenti perché quando la realtà la incide non produce veri cambiamenti ma solo esperienze da tenere sotto vuoto in attesa di riprendere il proprio percorso già segnato.

Ecco cos’è l’amicizia nell’universo mucciniano, una bellissima sfera di cristallo da tenere sul comodino e rovesciare a neve quando ci si vuole illudere d’aver vissuto qualcosa di così imperfetto da risultare perfetto.  

       Per scrivere all'autore overmovie@targatocn.it

De Mazan

TI RICORDI COSA È SUCCESSO L’ANNO SCORSO A MARZO?
Ascolta il podcast con le notizie da non dimenticare

Ascolta "Un anno di notizie da non dimenticare" su Spreaker.

WhatsApp Segui il canale di Targatocn.it su WhatsApp ISCRIVITI

Ti potrebbero interessare anche:

Prima Pagina|Archivio|Redazione|Invia un Comunicato Stampa|Pubblicità|Scrivi al Direttore|Premium