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In Breve

| 07 maggio 2017, 10:55

The Circle: “la privacy è un reato?”

Con la regia di James Ponsoldt ( che sembra avere un debole per gli enfant prodiges della letteratura americana visto il recente “The end of Tour”, road-movie su David Foster Wallace) approda sugli schermi “The Circle”

The Circle: “la privacy è un reato?”

IL FILM

Con la regia di James Ponsoldt ( che sembra avere un debole per gli enfant prodiges della letteratura americana visto il recente “The end of Tour”, road-movie su David Foster Wallace) approda sugli schermi “The Circle”, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo d’un altro talentuoso scrittore  e cioè David Eggers, che ha collaborato anche alla sceneggiatura.

La fotografia è affidata a Matthew Libatique, la scenografia a Gerald Sullivan mentre per la colonna sonora sua maestà Danny Elfman abbandona l’usuale coralità descrittiva in funzione d’una partitura più “intimista” che unisce ad elementi elettronici violino e piano come a sintetizzare il contrasto fra l’iperconnessione rappresentata dal Cerchio e l’individualità residuale della protagonista.

 

TRAMA

Mae Holland (Emma Watson), lavoro modesto e padre disabile, vede la propria vita giungere ad una svolta quando il colosso “The Circle” decide di assumerla grazie all’intercessione d’un’amica che lavora già lì.  Dopo un iniziale scetticismo, dato probabilmente dalla vecchia concezione di lavoro, la giovane e intraprendente Mae viene risucchiata in un campus iperstimolante  che all’eccellenza professionale unisce gli orti biologici, la condivisione totale e dei keynote settimanali in cui il guru dell’azienda (un sempre credibile Tom Hanks) introduce le novità in un’apparente atmosfera informale con tanto di tazza di tè alla David Letterman.

Travolta da questa nuova vita social(e) e dall’aiuto che il Cerchio fornisce (a costo zero) al padre affetto da sclerosi multipla, decide di diventare la prima persona totalmente trasparente mettendo la propria vita on line tramite delle microcamere “seechange” ma se questo la porta ad essere in contatto con un miliardo di persone al giorno, e a impugnare l’ideologia totalizzante dei circlers al punto di ipotizzare una sorta di democrazia diretta 2.0, il tragico rovescio della medaglia non tarda ad arrivare costringendola a fare i conti con le implicazioni morali e personali di tale sovraesposizione.

 

FUORI TEMPO MASSIMO

Partendo dal presupposto che “The Circle”-libro è uscito negli Usa nel 2013 e che quindi sono intercorsi quattro anni prima della relativa mise en scene dell’opera (che sul piano informatico equivalgono ad un’era geologica), la sensazione che si prova guardando il film, soprattutto dopo la prima mezzora quando l’iniziale ritmo si stempera, è che questa pellicola avrebbe funzionato qualche anno fa e che la maggior parte delle sue tematiche siano già state ampiamente non solo trattate ma anche consumate.

La pervasività ed invasività dei social che attraverso l’apparente gratuità del servizio offerto acquisiscono (e vendono) i nostri dati personali lucrando sull’equivoco specchietto per le allodole che è la trasparenza totale (“la conoscenza è bene, la conoscenza totale è meglio” afferma Mae) fino al punto di fondare, grazie a una diffusione metastatica, un vero e proprio sistema di pensiero che richiama pericolosamente gli scenari distopici della migliore fantascienza di sempre (Dick, Ballard), sono rischi su cui il Mondo Occidentale, e non, ragiona da tanto al punto che non solo i grandi colossi del web sono tenuti sotto stretto controllo fiscale ma se ne indagano anche i guasti sociali e individuali prodotti come per l’abuso di stupefacenti o i disturbi dell’alimentazione (basti pensare ai gruppi di sostegno per chi soffre di dipendenza da Facebook).

“Truyou”, l’applicazione creata da The Circle che consente di effettuare pagamenti attraverso un unico account, un’unica password ed un unico sistema snellisce di certo il carico burocratico che pesa su ogni singolo cittadino (e noi in Italia sappiamo bene di cosa si sta parlando) ma aumenta il rischio di hackeraggio e conferisce ad un unico ente dei poteri troppo estesi che non sono bilanciati da un equivalente livello di responsabilità.

“Seechange”, la telecamera grande come una biglia dal costo più che abbordabile che può essere lasciata ovunque senza violare leggi né regolamenti è una realtà ampiamente superata da droni e webcam ma non è superato il principio che la sottende e cioè che chiunque possa e debba essere sottoposto a questa haute surveillance se non ha niente da nascondere.

 

I SEGRETI SONO BUGIE (?)

Nel microclima da Silicon Valley, dove Google, Steve Jobs e Facebook si mescolano in un frullatore fatto di slogan e di quell’ossessione per il nuovo che Kubrick rimproverava all’arte contemporanea, la difesa della privacy e la non-condivisione sono considerati più che tristi retaggi ma veri e propri reati così Mercer, lo storico ex di Mae, che fa l’artigiano e non ne vuole sapere del Cerchio viene perseguito come un criminale o considerato un eroe dai suoi detrattori.

In una società liquida in cui tutti sanno tutto di tutti, i segreti sono bugie da smascherare e il limite fra individuale e sociale non ha più senso così come quello fra pubblico e privato, questo concetto portato alle sue estreme conseguenze potrebbe distruggere l’essenza stessa della rappresentanza politica rilanciando l’utopia d’una democrazia diretta (on line)  senza i classici contrappesi istituzionali o garanzie costituzionali ipotizzando un sistema di governo che nella sua illuminata trasparenza presenta notevoli somiglianze con i totalitarismi.

L’anello debole del film è in tal senso l’ingenuità dei suoi protagonisti (finta quella dei guru, autoimposta per bisogno d’accettazione o ansia di riscatto sociale quella dei circlers) che sembrano privi di coscienza sociale o d’un apparato critico che permetta loro di filtrare culturalmente il Cerchio in tutte le sue sfaccettature.

La stessa Emma Watson, duttile strumento del pensiero unico e amorale interprete delle sue declinazioni, ha la mancanza di spessore psicologico dei personaggi a tema così come Matt (Amir Talai), fondatore di Truyou e principale oppositore della sua “depravazione”, resta una figura di sfondo laddove nel romanzo ha un ruolo primario.

E’ surreale che nessuno evidenzi i rischi potenziali di quest’illimitata capacità di controllo (anche fisiologico visto che a Mae viene introdotto nell’organismo un chip che ne monitora in tempo reale lo stato di salute) e che non se ne lamenti durante le riunioni aziendali se non per frustrazione professionale o invidia.

Ogni strumento diventa un fine se l’ideologia che lo produce non è più della sommatoria degli interessi individuali che la costituiscono.

 

RIFERIMENTI

“The Circle” appare sugli schermi cinematografici dopo la serie “Black Mirror” e una moltitudine di film che hanno ampiamente analizzato i danni che l’abuso tecnologico può causare agli individui (da “The Truman Show” passando attraverso “Disconnect” o “The Social Network”); l’espediente narrativo della ragazza graziosa che migra dalla provincia (e spesso da un lavoro insoddisfacente) verso la metropoli per coltivare il suo sogno si è già visto in “La La Land” o in “The Neon Demon”, senza tornare troppo indietro nel tempo. Anche la dimensione politica della pellicola (la parte potenzialmente più interessante) non dice nulla di nuovo rispetto al “Panopticon” di Bentham o a “1984” di Orwell dimostrando come la tecnologia ribadisca il principio alla base della camicia di forza e cioè che il vero potere coercitivo è sempre autoindotto e deriva dalle nostre libere(?) scelte.

 

CONCLUSIONI

Forse un giorno arriveremo alla totale trasparenza vaticinata da Mae (un’Emma Watson sottotono) ma finchè non galleggeremo in uno stato di pura autocoscienza sarà bene proteggere la nostra privacy da quella che Saviano chiamava “la macchina del fango” e cioè la strumentalizzazione dei nostri segreti (che non sono bugie) reali o manipolati ai fini d’un controllo globale che non punta in realtà alla sicurezza nazionale o extranazionale ma solo all’arricchimento d’un’oligarchia trasversale che fonda il suo deliro d’onnipotenza sulla paranoia. E sull’appiattimento culturale.

 

Germano Innocenti

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