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In Breve

| 20 agosto 2017, 09:59

“Monolith”, quando la tecnologia paranoica scatena istinti primordiali

Gustoso prodotto di genere e italianissimo, per quanto recitato in inglese, Monolith ha già ottenuto un discreto successo di critica e pubblico, anche grazie ad un originale lancio pubblicitario

“Monolith”, quando la tecnologia paranoica scatena istinti primordiali

IL FILM

 

Da un fumetto Bonelli ideato da Roberto Recchioni (sceneggiatore e curatore di Dylan Dog nonché figlio putativo di Tiziano Sclavi), Mauro Uzzeo e Lorenzo Ceccotti, per la regia di Ivan Silvestrini e la sceneggiatura di Elena Bucaccio prende forma questo coraggioso progetto prodotto proprio dalla Bonelli, in collaborazione con Sky e Lock and Valentine, e distribuito da Vision Italia (che si pone come terzo polo antagonista a RaiCinema e Minerva). Col montaggio di Lorenzo Muto e le musiche di Diego Buongiorno, che ammiccano a “Drive” e “Tron”, spicca la prova della bionda e brava Katherina Bowden (Sandra) che riesce a coniugare interiorità ed esteriorità grazie ad una fisicità prorompente e ad un istinto materno che ha convinto gli ideatori del film ad investire su di lei.

 

LA TRAMA

 

Sandra è una ex-popstar che ha sposato il suo produttore ed ora è in viaggio col figlio piccolo nel deserto dello Utah per raggiungere i nonni, l’auto che li condurrà a destinazione è la prestigiosa “Monolith”, la macchina più sicura al mondo, un incrocio fra un carro armato e supercar, praticamente indistruttibile e con un computer di bordo dal nome ancestrale (Lilith) che provvede ad ogni loro necessità.

I dubbi su un possibile tradimento del marito e le frustrazioni per la carriera precocemente interrotta porteranno Sandra a distrarsi e ad investire un cervo nel cuore della notte mentre il figlio, inconsapevole nativo digitale, la chiuderà fuori dalla Monolith inaugurando una feroce lotta  fra la donna e l’auto sullo sfondo d’un deserto bellissimo e ostile mentre i gradi aumentano e diminuiscono le ore di possibile sopravvivenza del bimbo, tralaltro asmatico, dentro quella sorta di cassaforte a quattro ruote.

Fra colpi di scena, ospiti indesiderati, flashback e sensi di colpa la pellicola scivola verso un epilogo ad effetto ben introdotto dal “one woman show” di Katrina Bowden.

 

2017, ODISSEA NEL DESERTO

 

Un’auto indistruttibile, nera come il monolito del capolavoro kubrickiano e con un nome che lo rievoca apertamente, provvista d’un computer di bordo che sembra un incrocio fra Kitt e Hal 9000 ma con una voce femminile che ingenera nella protagonista un atavico antagonismo, ci sono tutti gli ingredienti per un incubo paranoico che non ha lo spazio profondo come ambientazione ma le distese ondulate del deserto con picchi levigati dal vento.

Centrali elettriche desolate che sembrano stazioni orbitali e un aereo abbandonato nel nulla raccontano d’una tecnologia che ha perso la propria funzione seminando dietro di sé immobili simulacri d’una religione autoreferenziale e fallibile. In questo spazio si muove Sandra in preda all’istinto più seminale che esiste e cioè quello d’una madre che deve salvare suo figlio e per questo lotta ferocemente con la sciamanica apparizione d’un lupo ma soprattutto col timore di non essere all’altezza d’un ruolo per il quale ha rinunciato ad ogni cosa.

Il suo passato ritorna attraverso dei fan che la riconoscono e una componente del gruppo in cui cantava che forse ha una storia col marito ma anche tramite droghe leggere ed alcool che lei dovrà bypassare per dimostrare di meritare suo figlio.

Infinita è la serie di riferimenti cinematografici che tornano in mente, da “Duel” a “Christine, la macchina infernale” ma anche “La macchina nera” solo che in questo caso i fantasmi sono interiori e le lamiere divengono lo specchio d’angosce estremamente attuali vista l’esponenziale crescita di bambini incautamente lasciati in auto durante i mesi estivi al punto che si stanno elaborando dei sistemi per avvertire il guidatore di tali atroci sviste grazie al calcolo del peso del neonato sui sedili posteriori.

Il lupo ricorda “Cujo” di King ma il bambino ci riporta al feto cosmico che appare sul finale di “2001” sulle note dello Zarathustra straussiano.

 

 

 

 

 

SANDRA

 

Con un fisico da eroina della Marvel e un passato da melensa pop-singer Sandra è il prototipo della neo-madre insicura che deve affrontare il deserto per affermare il proprio ruolo come in un apotropaico rito di passaggio e sotto questo fondamentale punto di vista la macchina diviene il ballardiano pretesto per lo scatenarsi di primitive pulsioni che non potranno mai essere completamente sedate da quel miraggio a circuito chiuso che è diventato il progresso tecnologico.

Nel fumetto della donna si sa poco o nulla tranne che ha un marito possessivo e mille timori sulla propria abilità di genitrice e questo acuisce ancor di più la sua funzione archetipica.

 

ROBERTO RECCHIONI

 

L’ideatore di Monolith è Roberto Recchioni che attraverso questo concept ha voluto evidenziare i rischi sottesi ad una scarsa conoscenza della tecnologia che frequentiamo abitualmente (“accettiamo tutto quello che i social ci propongono e poi magari ci accorgiamo di aver donato i nostri organi a facebook”) e, fedele al principio del “show don’t tell”, ha mostrato il limite, tipico di molte serie tv, di puntare tutto sulla parola ai danni dell’immagine, anche per i ristretti margini di budget.

“In questo momento stiamo andando verso un’analfabetizzazione del racconto attraverso il lato visivo (vedi la Marvel). Costa di più raccontare le cose tramite le immagini” dice Recchioni e denunciando la “psicosi dello spoiler” che si porrebbe alla base d’una scarsa qualità di contenuti, facendo del colpo di scena l’unica vera fonte d’interesse d’una storia, sottolinea il lato più interessante dell’operazione Monolith e cioè l’evoluzione parallela di fumetto e plot cinematografico e non la derivazione dell’uno dall’altro.

Questo doppio binario consentirebbe di superare i problemi di coerenza narrativa che da sempre affliggono le riduzioni cinematografiche (vedi lo storico duello Kubrick-King per “Shining”) ma anche di celebrare quel primato dell’immagine sul racconto didascalico cui Recchioni, da storico fumettaro, tiene tanto.

 

CONCLUSIONI

 

Gustoso prodotto di genere e italianissimo, per quanto recitato in inglese, Monolith ha già ottenuto un discreto successo di critica e pubblico, anche grazie ad un originale lancio pubblicitario su Quattroruote, e per quanto il doppio binario fumetto-cinema sia stato già usato per serie quali “The walking dead” o “Game of thrones”, va sottolineato in questo caso l’impegno d’una produzione-distribuzione rigorosamente tricolore.

Dei difetti di sceneggiatura ci sono e l’accostamento a “2001, Odissea nello spazio” vale solo come omaggio indiretto a un capolavoro o come primato delle immagini sulla parola ma questo film merita soprattutto per l’incredibile lavoro svolto da Lorenzo Ceccotti, disegnatore del fumetto e della solenne autovettura poi realizzata su sua supervisione negli Stati Uniti.

Germano Innocenti

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