- 18 novembre 2017, 14:15

Cinema, ipocrisia e vuoto morale – Maps to the Stars

Scandali sessuali nel mondo della 7^ arte: una nuova occasione persa per curare la causa del male, e non soltanto i sintomi

Cinema, ipocrisia e vuoto morale – Maps to the Stars

“Maps to the Stars” è un film del 2014 di produzione canadese e americana, scritto da Bruce Wagner e diretto da David Cronenberg.

Presentato alla 67^ edizione del Festival di Cannes (nella quale è stata premiata l'interpretazione di Julienne Moore), la pellicola presenta le vite disastrate di alcuni personaggi collegati in diversi modi al mondo della “Los Angeles cinematografica”, di Hollywood, sottolineandone le idiosincrasie, le manie di protagonismo al limite della schizofrenia e le enormi, abissali e terrificanti fragilità.

Ok, ora che anche Louis C.K. si è rivelato essere parte del problema (e se non lo conoscete, credetemi, avete l'assoluto bisogno di rimediare a questa lacuna), non posso proprio più evitare l'argomento: benvenuti a un nuovo appuntamento con “Ad occhi aperti”, oggi si parla di mondo del cinema in senso lato, e di scandali sessuali. E dell'apparentemente inarrestabile effetto domino che i secondi stanno applicando sul primo.

Una premessa, che come tante altre oggi è tanto importante quanto idiota. Con questo articolo non voglio definire vittime e carnefici e non voglio commentare l'atto in sé di chiedere sesso in cambio di agevolazioni professionali perché lo considero qualcosa di riprovevole nel più puro senso del termine; ancora una volta, quel che mi interessa di più sono le conseguenze delle varie denunce sul mondo che ci circonda. Perché non so se ve ne siete accorti, ma le cose minacciano davvero di cambiare del tutto, per il mondo del cinema, nostrano e non.

Anzi, dall'altra parte dell'Oceano già l'hanno fatto.

Prendiamo Louis C.K., per l'appunto, uno dei comici più celebri d'America , che ha visto il proprio prossimo film in uscita imminente cancellato dai cartelloni dell'intero stato. O Kevin Spacey, che a seguito del suo coming-out e del Tweet (rileggete: “del Tweet”, non di una denuncia formale) riferito alle presunte molestie intentate decenni fa ha visto la chiusura immediata della serie tv House of Cards di cui era protagonista... e, udite udite, la cancellazione dall'interno del prossimo film di Ridley Scott, con la produzione che ha ordinato di girare nuovamente le sue scene con un sostituto. Ah, ovviamente a Spacey sono stati anche revocati gli Emmy Awards vinti in carriera.

Lo ripeto ancora una volta per sicurezza, sperando nell'intelligenza di chi leggerà queste parole: non sto cercando di giustificare nessuno. E questo articolo non deriva dall'ammirazione artistica verso Spacey o Louis C.K., o Weinstein, o Brizzi o gli altri personaggi coinvolti, che dal punto di vista umano e civile considero profondamente mancanti.

Ma davvero, non riesco a comprendere il senso di andare a inserire nel contesto della “pena” l'aspetto professionale delle loro vite. Come può aiutare, in tutta la faccenda, revocare gli Emmy di Spacey, che lui in quanto essere umano ha guadagnato con il proprio talento? E allo stesso modo adesso dovrei smettere di guardare la miriade di film ottimi che ha prodotto Weinstein perché “consigliava caldamente” alle attrici che lavoravano con lui di non lavorare soltanto sul set? E infine, dovrei considerare Louis C.K. un satiro meno brillante perché si è rivelato (proprio come vuole la satira in quanto Arte) del tutto identico ai mostruosi personaggi che ha da sempre messo alla berlina nei propri pezzi?

Come spesso accade nel mondo di oggi quando capita qualcosa di questa portata socio-culturale la reazione è spropositata e del tutto priva di qualunque logica sensata. Si curano i sintomi, senza pensare alla causa del male.

Forse proprio perché si tratta di movie stars, o stars e basta, di persone lontane dalla nostra quotidianità, non riusciamo a comprendere bene l'unica verità inoppugnabile che pare fuoriuscire da questa selva continua di mezze verità, denunce spurie e drammatici ricordi. E questa verità è che il fenomeno non colpisce il singolo personaggio, il singolo attore, la singola attrice, il singolo produttore, ma l'intero “sistema dello spettacolo” (che sia made in Italy o in USA): una concezione che abbiamo tutti e da sempre, spesso in un modo inconscio per cui riesce ad alimentarsi da sola nel tempo, ma che ogni volta che ci viene sbattuta in faccia guardiamo con estrema sorpresa e “furiosissimo sdegno”.

Come accade in “Maps to the Stars”, che è una perfetta fotografia della Hollywood del terzo millennio e delle ombre che si aggirano al suo interno, drogate di considerazione e d'amore e alla costante ricerca di un qualunque modo per tornare a essere, almeno una volta, almeno per un istante, celebri. Qualunque cavolo di cosa voglia dire.

E sapete cos'è l'aspetto più convincente della pellicola? L'assoluta certezza del fatto che tutti loro, nessuno escluso, si riconoscano a vicenda per ciò che sono davvero: al termine della storia non esistono più ipocrisie, responsabilità da scaricare o recriminazioni. Niente dichiarazioni alla stampa o comunicati, o errata corrige.

D'altronde, è soltanto un film, no?

simone giraudi

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