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In Breve

| 02 settembre 2018, 08:35

Nostra Signora dei Granturchi

Dopo un inofferto sorbetto al limone, e un silenzioso anatema contro Trip Advisor, tornare all’auto sgranando gli occhi di fronte ai venditori di “ruote” di pane da cinque chili grosse come pneumatici d’un Hammer .

Nostra Signora dei Granturchi

“Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e cretini che non hanno visto la Madonna. Io sono un cretino che la Madonna non l’ha vista mai […] i cretini che non hanno visto la Madonna hanno orrore di sé. Non portano Dio agli altri per ricavare se stessi ma se stessi agli altri per ricavare Dio […] i nostri contemporanei sono stupidi ma prostrarsi ai piedi di chi è più stupido di loro significa pregare…”

 

(Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi)

 

 

Giacere nella marina di Pescoluse, smeraldina per i riflessi solari, è frequentare una piacevole sconfitta o praticare una resa: la compatta arena di gelsomini tritati si depone sulla pelle bruna come arsenico mentre il solito tormentone latino-americano movimenta in acqua-gym la terza età e giovani dai fisici scolpiti (e dalle pupille dilatate) si passano una canna per stemperare i bagordi notturni.

Modaioli materassini a forma di fenicotteri o unicorni vengono varati in questa porzione di Puglia dall’autocelebrativo nome di “Maldive del Salento” mentre all’ingresso del Lido una sdraio gigante accoglie i culi di mezz’Europa in posa per foto-ricordo che passeranno alle “storie”, più che alla Storia.

Dopo tre ore di vaso-cottura nel brodo trasparente, simpaticamente punti dai minuti pesciolini e con un sospetto di branchie ai quarti posteriori, constatare con le dita palmate che i consoni gettoni per la doccia non funzionano quindi incartapecorire nella sabbia i vestiti riguadagnando l’auto verso l’uscita fra dune modellate dal proverbiale vento e un canneto che sembra l’ideale palizzata d’un gigantesco castello di sabbia.

Ridicolo contraltare delle inservibili docce un lavaggio-auto funziona a getto continuo nebulizzando acqua a pochi metri dalla strada.

 

(“Mentre la strada scorreva fra fantasmi di masserie e relitti di pagliare egli mangiava i fichi che il giardiniere deponeva ogni mattina sul tavolo come farebbe un gatto coi topolini uccisi per il padrone, fissando chilometri di ulivi ritorti verso il cielo come artigli o madri in fuga da un bombardamento, pensando che se la Sicilia coi suoi ecomostri e la spazzatura sversata è terra abbandonata la Puglia cogli ordinati muri a secco e i tumorali fichi d’India è invece terra selvaggia…)

 

Sbarcare a Otranto, il comune più a Oriente d’Italia, e lasciare in ostaggio per cinque euro la propria vettura a un paio d’abusivi socievoli come irregolari dell’Isis pensando che parcheggiare al Meridione è un po’ come pagare qualcuno per ucciderci e poi riscuotere l’assicurazione sulla vita.

La Cattedrale di Santa Maria Annunziata, ibrida di elementi bizantini, paleocristiani e romanici ci aspetta nel pomeriggio morente col suo rosone a sedici raggi traforati che somiglia all’occhio ustionato d’un ciclope mentre all’interno i dodici archi sorretti da quattordici colonne di granito insistono sul ligneo soffitto a lacunari dorati su sfondo bianco e nero.

 

(…la cattedrale di Otranto ondeggiava come uno stormo di vele bianche oltre la linea dell’orizzonte, più simile a un galeone senza controllo assediato dal mare che a una chiesa, essa si alzava ed abbassava come la voce d’un muezzin dischiudendo il suo passato di moschea dal portale barocco mentre egli ne percorreva con le orbite capovolte il profilo incendiato dal tramonto…)

 

Entrare nella Cattedrale calpestando il mosaico pavimentale a forma di albero della vita rovesciato col peccato originale della chioma che raffigura Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso insieme a Re Artù a cavallo d’un caprone mentre nel presbiterio sedici medaglioni inscenano un pantheon zoomorfo con un toro, un leviatano, un dromedario rampante, un elefante con una stella a cinque punte, una lonza con una volpe insanguinata, un leopardo, un ariete e un allegorico asino che suona la lira.

Scene dell’Antico Testamento si mescolano a romanzi cavallereschi e a un bestiario medievale ma lo stile quasi infantile delle figure trasmette un’inquietudine profonda che culmina nell’animale a quattro corpi, simbolo del monoteismo cattolico, e in un Alessandro Magno che ascende al cielo su due grifoni. Avvicinarsi lentamente alla Cappella dei Martiri mentre il mormorio dei turisti si asciuga e l’atmosfera liturgica ispessisce l’aria d’un’elettrica attesa.

 

(…nell’anno del signore 1481 Otranto era una città fiorente quando i turchi vennero dal mare e l’assediarono. Coloro che difesero inutilmente le sue mura divennero martiri della patria ma dei seimila suoi abitanti non restarono che ottocento superstiti costretti a rinnegare la propria fede dal comandante ottomano Pascià. L’umile calzolaio Primaldo rispondeva a nome di tutti dicendo che essi tenevano Gesù Cristo come figlio di Dio e loro Signore e vero Dio e che sarebbero morti mille volte piuttosto che farsi turchi. Venivano condotti sul colle della Minerva e lì decapitati o mutilati vi restavano, decomposta messe, per un anno. Per i pietosi resti, poi tradotti nella cattedrale, venne eretta nel 1500 un’apposita Cappella…)

 

Fissare i sette armadi con le ossa dei martiri perfettamente conservate pensando che non è un caso essere giunti in città d’Otranto proprio il 14 Agosto, anniversario di quell’infausto evento e festa patronale, quindi scorgere fra ulne e teschi il riflesso degli occhi di Carmelo Bene che era apparso alla Madonna senza averla mai vista e cercare d’immaginare, dietro l’altare di marmo e il “sasso del martirio”, l’invasata follia dei massacratori turchi.

Luminarie da festa deposte come febbrili diademi sulle strade gremite di gente mentre fuochi d’artificio si susseguono, ininterrotti come fulmini, e la taranta impazza ovunque fra i venditori di street food: taralli all’olio d’oliva, al peperoncino, alla curcuma e alla pizzaiola, scapece gallipolina di pesce fritto marinato fra strati di mollica di pane con aceto e zafferano, pasta di mandorle e cartellate col miele, carnevalesche chiacchere e pizza alta (rustica o di patate), “taiedda” di riso, patate e cozze nere, melanzane grigliate con aglio e menta, peperoni verdi fritti e minestra di farro con frutti di mare e scorfano.

Bere uno spritz in un locale incastonato fra le mura del porto mentre il cameriere ci porta dei taralli (“tarallini!”, i taralli sono quelli grandi) ed edicole votive sorgono ovunque sciabolando mariani trionfi biancoazzurri o incolori teche di plastica consumate dal tempo.

 

(…dio come amava l’improvviso sfrecciare degli uccelli notturni nelle piazze in festa che strillano acute vertigini nel vuoto illuminato dei palazzi, i gabbiani che nidificano nel Colosseo o si posano sul verde manto dell’Olimpico durante una partita, amoreggiando sui contrafforti dello stadio. Nella buia cavità dell’orecchio di Dionisio a Siracusa percepirne l’invisibile battito d’ali perdersi verso la mandorla di luce del teatro in superficie…)

 

Sedere al ristorante Pi greco in un dehors privo di ventilatori con l’aria immobile a trentotto gradi chiedendosi se i cinquecento “eccellente” sbandierati da Trip Advisor abbiano mai degustato le tre microscopiche porzioni di pesce crudo (immangiabile quella alle seppie) con virgole di frutta quindi centellinare un olio d’oliva aromatizzato al limone presentatoci dal cameriere come oro fuso e col sapore d’una buccia di lime andata a male mentre una porzione di gnocchetti di patate su fonduta di Taleggio proprio non riesce ad amalgamarsi alla tartare di scampi ( se non nella mente postmoderna dello chef) e gli spaghetti su crema di cozze con croccante di pomodori secchi e pinoli riscattano solo parzialmente un conto che meriterebbe una nuova mattanza di Cristiani. Sfumati al vin bianco.

Dopo un inofferto sorbetto al limone, e un silenzioso anatema contro Trip Advisor, tornare all’auto sgranando gli occhi di fronte ai venditori di “ruote” di pane da cinque chili grosse come pneumatici d’un Hammer .

 

(…morivano di spada i martiri della fede e il loro sangue macchiava eternamente le spighe di grano da cui viene questo pane unico che mangiamo durante la festa in loro onore, morivano per non abiurare un Cristo cui noi abbiamo rinunciato da tempo, auto-decapitati e pron(t)i a un’invasione che nessun sovranismo potrà mai contenere perché abbiamo abdicato all’ebete contemplazione della divinità…così pensando scendeva al porto e sotto la scimitarra della luna, strizzando lacrime dagli occhi stellati, poteva intravedere le centocinquanta navi turche coi quindicimila soldati dagli inauditi cimieri che scintillavano sul mare calmo… “ci risiamo”.)

 

                                                           

Germano Innocenti

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