“Il popolo è questo e io lo ricopio.”
(Giuseppe Gioachino Belli)
Entrare a “La Società dei Magnaccioni”, ex bordello romano a lungo sfitto ed ora ristrutturato in ristorante popolare, per la prima disfida poetica di “Carme alla brace”. Prendere posto ad uno dei tavoli che cingono, a ferro di cavallo, l’arena dove il proprietario del locale (scrittore fallito, cuoco per navi da crociera e noto frequentatore notturno di consolari capitoline) a breve presenterà la serata.
Sullo sfondo il noto quadro di Pellizza da Volpedo è stato modificato con tocco situazionista ed ora quarti di bue dondolano sul quarto stato mentre sulla cornice brilla l’irriverente scritta: “Il (quinto) quarto stato”; in un angolo, illuminata da sotto come la cupola d’un duomo, un’immagine di Giuseppe Gioachino Belli, poeta dialettale ottocentesco e core de Roma, dai capelli impennati e con lo sguardo malandrino che vigila la frase: “ Roma, stalla e chiavica der monno”.
Mentre il lampadario in legno (coatto come il barile di sottoli sormontato da due alabastrini Romolo e Remo che suggono dalle poppe della lupa) si accende e spegne e una hola da Curva ondula i tavoli il proprietario fa il suo ingresso cordialmente salutato da un coro de “fijo de na mignotta” che in un’altra città inaugurerebbe duelli all’arma bianca e che qui è invece il massimo attestato d’un incondizionato affetto.
“Grazie, grazie”, esordisce l’oste sudato come una salsiccia in salamandra (più che in salamoia) mentre il microfono spiove a filo dal soffitto a travi come al Madison Square Garden,” e benvenuti alla prima disfida di “Carme alla Brace!!!”.
“Daje!!!” Anfibi scuotono la cassa armonica del ristorante come i gradoni dell’Olimpico.
“Boni. Boni. Questa serata è dedicata alla memoria del più grande poeta romanesco di tutti i tempi e cioè Giuseppe Gioachino Belli che come nessun altro ha saputo ritrarre la Roma papalina e ottocentesca ma soprattutto il popolo romano in tutti i suoi vizi e le sue credenze, senza filtri né paure. Ma stasera noi celebriamo anche un altro monumento che appartiene al popolo come le sue fontane e le sue chiese e cioè il Quinto Quarto!!!”
Palpeggiata e fischiata da una selva di burini una procace cameriera serve fiaschi di vino in bicchieri di coccio insinuandosi nella canea densa di testosterone come il trailer di Pornhub sponsorizzato da Red Bull.
“Per chi non lo sapesse il quinto quarto è il fratello minore dei quarti pregiati degli animali macellati, e cioè i due anteriori e posteriori, quindi si tratta di frattaglie e interiora che storicamente i ricchi snobbavano e che venivano regalati a “vaccinari” e “scortichini” come integrazione della paga. La cucina tradizionale romana ha elaborato
leggendarie ricette per il quinto quarto e questa sera noi vi proporremo le più famose ma, fedeli al titolo della disfida, daremo particolare risalto alla cottura alla brace.”
“Bravo!!”. Fischi e bestemmie sollevano in trionfo l’oratore come un santo in lettiga.
“Ogni tavolo è munito di carta e penna e ad ogni portata potrete comporre un tipico sonetto alla Belli in base all’argomento da me deciso. Se qualcuno si stesse chiedendo perché detengo questo privilegio il motivo è che “Io so io e voi nun sete un cazzo.”
La citazione dell’Albertone Sordi nazionale nei panni de “Il Marchese del Grillo” fa letteralmente saltare sulle sedie l’infernale torcida mentre una dozzina di persone abbandonano la sala accompagnati dall’inevitabile : “ chi se ritira dalla lotta…eccetera.”
“Un saluto ai nostri amici vegani!” grida l’oste, postmoderno come prosciutto e melone e col fiuto per gli affari d’un venditore di bibbie siriano. Intanto la giunonica locandiera continua a sostituire vuoti di vino con la stessa velocità con cui schiaffeggia al seno furtive mani (molte delle quali tornite d’anello cresimale al mignolino).
“Per gli ignoranti in sala, che sono in molti e lo dico con affetto, il sonetto è un componimento poetico in quattordici versi suddiviso in due quartine a rima alternata o incrociata e in due terzine a rima varia. Farò un esempio citandone uno dei più famosi dell’immortale Belli:
ER PADRE DE LI SANTI
Er cazzo se po dì radica, ucello,
cicio, nerbo, tortore pennarolo,
pezzo de carne, manico, cetriolo,
asperge, cucuzzola e stennarello,
cavicchio, canaletto e chiavistello,
er gionco, er guercio, er mio, nerchia, pirolo,
attaccapanni, moccolo, brugnolo,
inguilla, torciorello e manganello.
Zeppa e batocco, cavola e turaccio,
e maritozzo e cannello e pipino,
e salame, e ssarciccia e sanguinaccio.
Poi scafa, canocchiale, arma, bambino.
Poi torzo, crescimmano, catenaccio,
minnola e mi fratello piccino.
E tte lascio perzino,
ch’er mi dottore lo chiama cotale,
fallo, asta, verga o membro naturale.
Quer vecchio de spezziale
dice Priapo; e la su moje pene,
segno per dio che nun je torna bene.
So che ci sono due terzine in più rispetto al tradizionale sonetto ma la poesia, come la vita, ha sempre qualcosa in più o qualcosa in meno rispetto a quello che conviene e che uno può accettare e se non ve torna bene allora vale come pel pene de a moje de lo spezziale.”
Un’ovazione accoglie la rima sulla rima mentre porzioni di fegato alla griglia con alloro approdano sui tavoli già insanguinati di rosso della casa e le poche donne in sala, per quanto preparate al baccanale, torcono il naso ad un aroma così viscerale da ispessire l’aria.
“Iniziamo con le frattaglie rosse e in particolare col fegato che va cotto con attenzione altrimenti il fuoco asciuga troppo le parti magre. Questo è il ventre di Roma amici miei, prendetene e mangiatene tutti e non abbiate paura del forte odore e dell’aspetto poco invitante poiché ognuno di noi, se vuole essere cittadino di quest’eterna e malata città, deve cibarsi delle sue interiora.
L’argomento del primo sonetto, a tema con la pietanza, è il coraggio. Dateci dentro perché come diceva il Belli “è sempre fame vecchia e ffame nova”.
Notando che alcuni vicini di tavolo hanno affiancato alla prima portata un tris di salsicce di fegato (anch’esse alla brace) assaggiare la carne ingentilita dall’alloro e trovarla tutt’altro che sgradevole quindi osservare il primo improvvisato poeta montare su una sedia come un bimbo la sera di Vigilia e dopo aver nettato il grugno mucido d’olio declamare:
ER CORAGGIO DE I COJONI
Se fa presto a dì coraggio
come quei sordati
che vanno all’arembaggio
e nun so manco maritati,
quelli nun se lo so meritati
sto gran cazzo der coraggio,
se sò solo abituati
a parlà d’Estate e nun è ancora Maggio.
La loro è incoscienza
come quella che coje
er pesce che nun vede la lenza:
L’eroe so io in tutta coscienza
che da trent’anni abbozzo mi moje
ch’ed è un quintale e due d’ignoranza.
“Un applauso al primo sonetto di questa disfida!!!” urla l’oste incoraggiato da una grandinata di monetine battute sulle sedie dal centinaio di vinolenti avventori. Notare con la coda (alla vaccinara) dell’occhio che la giunonica cameriera sta cambiando nel frattempo i piatti, lucidati a specchio da molliconi di pane di Genzano, riuscendo nel difficile tentativo di servire stoviglie e seminare mortacci a chiunque le pizzichi i glutei, incautamente fasciati in leggins di due misure più stretti.
“Qualcuno potrebbe lamentarsi della volgarità del dialetto,” riprende l’oste ampolloso come un messia posticcio, “ma il dialetto è il quinto quarto della lingua e se l’etica del macellaio è quella di sfruttare tutto il corpo abbattuto quella del poeta è di non escludere ma anzi valorizzare frattaglie e interiora semantiche, onomatopee, proverbi popolari e parolacce. Persino le bestemmie visto che solo nella città del Papa si possono gustare fino in fondo anatemi e apostasie.”
Sorridere all’astuta difesa del dialetto come carne di seconda scelta amatissima dalla plebe di dovunque quindi osservare un piatto fumante raggiungere l’ottavo bicchiere di vino dall’inizio della tenzone.
“Ecco il cuore di vitello alla griglia, tagliato a strisce sottili e insaporito con olio e pepe macinato fresco, va gustato col limone e la cottura è di pochi minuti a fiamma vivace. Il tema del secondo sonetto è, coerentemente con la portata e col romanticismo belliano, l’amore…”
Una pernacchia si solleva dalle retrovie, sboccata e triviale come si conviene, perché la brace è l’apostrofo rosato fra le parole t’(arrosti)amo.
(Continua…)