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In Breve

| 29 settembre 2018, 06:00

Carme alla brace (terza parte)

Immagini quest’uomo luminosamente al servizio del papato che di giorno scrive in latino e di notte frequenta le osterie

Carme alla brace (terza parte)

“Senz’acqua si, ma senza vino…

ma senza vino io? Dio me ne guardi!”

 

“Papa Grigorio, dì ar Governatore

che sto popolo tuo trasteverino

si pperde l’ostarie fa cquarc’orrore.

 

Noi ma’nnece a scannatte er giacubbino

spènnesce ar prezzo che tte va ppiù a ccore

ma guai pe ccristo a cchi cce tocca er vino.”

 

“[…] e ffinarmente, a noi: cqua ve do er pisto,

ch’edè, ssori cazzacci, er vino o ll’acqua

che vve po’ divventàà ssangue de Cristo?”

 

 

Coi capelli neri dolorosamente raccolti in una coda da pattinatrice sul ghiaccio e le giunoniche forme strizzate in leggins elasticizzati e t-shirt scollata la cameriera avanza verso il nostro tavolo bilanciando dieci piatti (cinque per braccio) di fumante coda alla vaccinara mentre i commenti del popolo della “Società dei Magnaccioni”, inizialmente grossolani e ora apertamente pornografici, le scivolano addosso transustanziandosi in grassa mancia finale.

“Ecco à regina der quinto quarto: à coda alla vaccinara” (gomito a teiera e doppia big babol alla fragola).

“Perché tre piatti a testa?”

“Mmmh, eccone n’antro (ballerina tamburellante e occhi rovesciati stile Linda Blair).

“Il primo è la classica coda col guanciale tritato, chiodi di garofano, aglio olio e cipolla, il secondo un’antica ricetta con una salsa a base di cacao amaro, pinoli e uva passa (il nostro chef aggiunge anche un po’ di cannella e noce moscata) e infine ci sono i classici rigatoni col sugo di coda e pecorino.”

“Il defibrillatore arriva insieme al dessert?”

“Simpatico. Altre domande o posso andare?”

“Solo un’ultima curiosità. Cosa spinge una leggiadra donzella come lei ad approvvigionare di alimenti ogni sera questa moltitudine di selvaggi?”

“Non riceverli ogni fine mese dal mio ex-marito.”

“Gioco e partita. Touchè.”

Osservare il professore universitario, ormai paonazzo per il vino, ridacchiare nelle mani a coppa dopo aver ingollato un impressionante boccone di coda al cacao mentre l’oste sta nuovamente per prendere la parola al centro dell’arena.

“Perché ride?”

“Non rido di lei ma con lei. Vengo spesso in questo ristorante e ho visto dozzine di uomini fallire l’approccio con quella cameriera. Belli o brutti, ben vestiti o clochard, eleganti o grezzi, la sua attitudine al rifiuto è trasversale.”

“Forse è lesbica.”

“Non sia volgare e comunque non credo. Tra me e me l’ho ribattezzata “la M.me Bovary de noantri” perché non si limita a respingere le avances ma le ignora abilmente.”

“Penso sia l’unico modo per sopravvivere a questa tribù di bonobo.”

“Signore e Signori, prima di lanciare l’ultimo tema della disfida poetica qualcuno mi ha giustamente fatto notare che non ho ancora reso esplicito il premio che andrà al vincitore così ho deciso di farlo ora.”

Fischi e applausi (qualche rutto).

“Il vincitore della prima edizione poetico-culinaria “Carme alla brace” avrà diritto ad un biglietto d’andata e ritorno per la città più bella del mondo.”

Applausi e fischi (molti rutti).

“E adesso tenetevi forte e sfoderate le penne poiché l’ultimo tema su cui vi affronterete è quello che l’immortale Giochino Belli, mito e nume tutelare della serata, chiamava “sugo d’agresta” e cioè il vino!!”

(Assolo di rutti).

“Intelligente il nostro oste.”

“Perché?”

“Ponendo il vino come ultimo argomento della tenzone ne raddoppierà il consumo.”

“Allora non è intelligente ma soltanto furbo”.

“Dice?”

“La furbizia è l’intelligenza senza ruota di scorta.”

“Bukowski?”

“No, il sottoscritto dopo il secondo litro.”

Una donna, trattenuta da un obeso in maniche di camicia, si divincola e raggiunge il centro dell’arena salutata da un corale grido di sorpresa (e dalle bestemmie del gigante bloccato da due camerieri di pari mole e ignoranza).

“Ora ne vedremo delle belle”, sghignazza il professore fregandosi le mani orfane di fede nuziale.

“Perché la diverte tanto tutto questo? Lei sembra un uomo di classe.”

“Le risponderò dopo il sonetto. Piuttosto non ha neanche toccato la sua coda al cacao amaro.”

“Se volevo il torrone andavo in pasticceria.”

“Posso?”

“È tutta sua.”

La donna, una sorta di Anna Magnani senza occhi cerchiati di nero e col quintale abbondante di peso confezionato in un orribile vestito a fiori, si guarda intorno come un orango bersagliato di noccioline quindi, dopo aver puntato l’indice contro il presumibile marito (più incatenato del Prometeo di Eschilo), esclama:

 

Quanno t’ho sposato

me volevo lascià alle spalle

na madre mbecille

e n’ padre alcolizzato

 

ma se vede che er sangue s’è sbajato

e ‘nvece che alla fija

a te t’ha tramandato

l’amore pe à bottija.

 

Ma se umano è sbagliare

e perseverare è diabolico

la vita m’ha insegnato che rubbbare

 

è n’atto apostolico

se chi t’ha portato all’altare

c’ha er braccino focomelico

 

quanno se tratta de pagare.

È vero che nun me l’ha ordinato er medico

de sposamme n’animale

 

ma armeno prima che esca pe annà a fa er male

ar portafojo j’alleggerisco er carico

che poi tanto beve pe dimenticare.

 

Un’ovazione spiove sulla donna che sorride sorpresa come un pit bull alla prima carezza irradiando una gioia cattiva dai capillari rotti mentre il marito viene “gentilmente” condotto fuori dai camerieri in una nube di saliva e bestemmie.

“Sapeva che il Belli lavorava per la Santa Sede?”

“Ne avevo sentito parlare”.

“E che fosse pubblicamente un censore?”

“No, questo no. Ma cosa c’entra?”

“Sto rispondendo alla sua domanda di prima. Come custode della morale censurò Shakespeare e prima di morire chiese che l’intero corpus della sua opera in romanesco fosse bruciato.”

“Come Kafka…”

“Si, e come tutti quelli che non vogliono realmente essere dimenticati.”

“Prof, amo questo genere di dissertazioni ma non vedo il nesso con la serata.”

“Ciò di cui si vergognava lo ha reso immortale. La censura iniziale (che nel suo caso fu anche autocensura) è stato il sigillo d’un classico. Tutto ciò che sfugge alla letteratura, soprattutto attraverso un’estetica oscena, e il romanesco del Belli era sicuramente osceno per i tempi, diventa assoluto.”

“D’altronde fra immorale e immortale c’è solo la “t” di Tempo.”

“Immagini quest’uomo luminosamente al servizio del papato che di giorno scrive in latino e di notte frequenta le osterie e i bordelli romani raccontandoli con una lingua irriverente e vitale, impastata del fango dei vicoli dove va a bere lo stesso vino che stiamo bevendo noi in questo momento, magari perdendosi in qualche casa di malaffare coprendosi il volto per non essere riconosciuto; lo immagini mangiare i piatti della tradizione romana appuntandosi proverbi e modi di dire e quasi senza rendersene conto costruire un vocabolario con una perizia filologica non meno scrupolosa di quella manzoniana…”

“Risciacquando i panni nel Tevere…e nel vino dei Castelli.”

“Esatto. Ed ora lo immagini svegliarsi il mattino seguente con un cerchio alla testa (visto che la Storia deve fare i conti con i postumi oltre che coi posteri) e un irredimibile senso di colpa e, rileggendo i caotici appunti della sera precedente, macchiati di sugo e vino rosso, iniziare a stracciarli per poi ricomporli con un patetico sorriso stampato sul volto sentendosi come…come…”

“…come un docente universitario dal mento sporco di cacao amaro.”

“Scusate se interrompo sta “corrispondenza d’amorosi sensi” ma posso portà via i piatti?”

“Ummh, una cameriera che cita Ugo Foscolo”.

“Perché eè cameriere nun studiano?”

“Lasci stare il mio amico. È un professore e ho detto tutto (senz’offesa). Piuttosto posso farle una domanda?”

“Se nun è er numero mio de cellulare o che misura porto de petto si.”

“Qual è il suo nome? Questo ce lo può dire no?”

“Me chiamo Carmen.”

Alzarsi in piedi facendo cadere un paio di brocche e, meritando giustificatissimi mortacci, declamare con lamentosa voce da etilista:

 

Te movi fra la gente

come na gatta

che ‘n mezzo alla stoppa

jè rimasto preso n’ dente.

 

Nun chiedi niente

perché nun voi che te sia chiesto

proprio niente;

solo de sapè er tu nome m’è concesso.

 

E sto nome t’assomija

e sapessi quanto me piace

me dà come ‘n gusto de tortilla

 

nella bocca che se compiace

mentre se rifocilla

de assaggià n’ po’ de Carmen alla brace.

 

(continua…)                                                                                                                   

Germano Innocenti

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