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In Breve

| 06 ottobre 2018, 06:00

Carme alla brace (ultima parte)

È la sera dei miracoli nella Roma byroniana e la luna è una ruota di limone da spremere nel vino rosso mentre la notte somiglia al viso d’un’adolescente punto d’astrali efelidi.

Carme alla brace (ultima parte)

“La morte sta anniscosta in ne l’orologi;

e ggnisuno po’ ddì: domani ancora

sentirò bbatte er mezzogiorno d’oggi.

 

Cosa fa er pellegrino poverello

ne l’intraprenne un viaggio de quarc’ora?

Porta un pezzo de pane, e abbasta quello.”

 

È la sera dei miracoli nella Roma byroniana e la luna è una ruota di limone da spremere nel vino rosso mentre la notte somiglia al viso d’un’adolescente punto d’astrali efelidi. La gente corre per le strade abbracciata alla propria ebbrezza prima che se ne voli via come la giovinezza o una promessa tradita.

A “La Società dei Magnaccioni” si è ormai giunti agli ultimi sonetti (e portate) della disfida poetica Carme alla brace e i pochi rimasti, vinti dal cibo e dal torpore alcolico, gremiscono i tavoli intorno all’arena smaniosi di scoprire chi vincerà l’agognato viaggio in palio per la città più bella del mondo.

“Ed eccoci arrivati al girone finale di quest’esaltante serata e mentre la nostra bellissima Carmen (fischi e oscenità alla procace cameriera) serve trippa e pajata prima della votazione decisiva c’è ancora spazio per un ultimo sonetto libero, senza argomento da me imposto”, declama l’oste bleso e sudato come una pepita di baccalà fritto.

“Una pè er professore e una pè Rodolfo Lavandino”, ci sfotte Carmen col sorriso luminoso sotto la morena corvina dei capelli. Una terrina di coccio con trippa pomodoro e mentuccia (nevischiata di pecorino) si appaia ai rigatoni di pajata mentre su una stringa d’ardesia assaggi di pajata all’anconetana (alla brace) emanano un invitante aroma di rotondità speziata.

“Penso tocchi a me ora”, sussurra malinconico il professore tormentandosi i candidi capelli unti d’olio e condensa.

“Prima la trippa o la pajata?” domandare velenosi e osservarlo stupiti guadagnare il centro dell’arena ma non prima d’aver esalato un tremante: “Prima la vita.”

 

Nella vita come nell’amore

ce tocca da aspettà;

fino a quanno nun se mmore

er tempo ce tocca da ‘nganna.

 

Vale pe’ i poracci e pè chi troppo c’ha,

pè chi è nato a scola

e pè chi nun sa

manco ribatte na sòla.

 

Si nun c’ammazza l’attesa va ammazzata,

stamo sempre a fà le code

no de paja ma dè pajata.

 

Io so solo ‘n cane de strada

cò l’unica consolazione

de mordeme à coda. Alla vaccinara.

 

Timidi applausi e qualche fischio.

“Per quel che vale il suo sonetto è il migliore in assoluto finora.”

“E allora perché fischiano?”

“Perchè hanno ammazzato Pasolini (?)”

“È una domanda o un’affermazione?”

“Solo una delle tante vergogne nazionali. Non puoi dare una coscienza di classe a chi non te l’ha chiesta. Non puoi salvare chi non vuol essere salvato. La maggior parte delle persone sedute in questo ristorante non odia chi li governa ma li invidia.”

“Così però lei non esce da un banale, e avvilente, Naturalismo.”

“Per avere coscienza di classe bisogna prima avere coscienza di sé e il Belli aveva ben compreso quanto il romano (anzi il romanesco) non vada oltre una stoica accettazione della realtà. Piuttosto perché ha scelto di partecipare alla disfida?”

“Chi sa fa, chi non sa insegna.”

“Ecco qua la penurtima portata de st’orgia alimentare”, esclama una Carmen ormai visibilmente affaticata ma pur sempre sorridente, “quaglie al forno con funghi e ciriole e n’assaggio de coratella.”

“Ma non è la solita coratella”.

“E bravo er professore. Difatti è cotta alla brace, alla maniera sarda.”

“Le è piaciuto il mio sonetto?”

“Si ma era troppo triste. La vita è già pesante de suo. Se pure l’arte diventa pesante allora fa schifo du vorte. Aspetta ch’arrivo! Ve devo lascià.”

“La morte della tragedia in due frasi.”

“Beviamoci su.”

Prima che la madre lo afferri un bambino di circa otto anni col casco biondo e le gambette sbucciate da Pinocchio corre al centro dell’arena afferrando il pendolo del microfono.

 

Ogni giorno finch’è giorno

corro pè le peggio strade,

solo quanno è notte ritorno

e faccio disperà mi madre.

 

Nun ho conosciuto mi padre

che s’è dato ‘na guardata ‘ntorno

e à capito sin dall’ospedale

ch’era mejo levasse de torno.

 

È pè questo forze che corro

e nun vado a scola

pè nun penzà ar monno

 

e alla vita che te ‘ncula

e strillà a chi m’ha messo ar monno

vatten’affanculo e forza Roma.

 

 

“Simpatico il monello romano.”

“Una sorta di Gavroche capitolino.”

“Si ma senza Rivoluzione.”

“Flaiano diceva: “ Gli italiani vogliono la Rivoluzione ma sono pronti a fare le barricate solo coi mobili degli altri.”

“Veni qua che nun te faccio  niente,” strilla la madre del monello correndogli dietro.

“Cor cazzo. Te me meni.”

“Guarda che dopo è peggio.”

“A sor O’,” esclama il teppista nascondendosi dietro le gambe dell’oste, “fateme arrivà ‘n finale così nun pijo e botte!!”

“Quant’è vero Iddio, come t’ho fatto me te ripijo,” digrigna la dinoccolata genitrice, magra come una lupa e cogli occhi lucidi della tisi. O della sbronza.

Un vassoio di abbacchio a scottadito, rosolato alla griglia con burro, rosmarino, sale e pepe, piana sul tavolo ormai cotto di scoli e più cerchiato di rosso delle orbite d’un tossico.

“Morto Cristo, spenti i lumi”, conclude Carmen simboleggiando la fine delle ostilità.

“Si ma è al sangue”, sussurra deluso il professore.

“Eh certo. E se deve da magnà senza posate. È tradizione.”

“Io lo preferisco ben cotto, come usa ai Castelli.”

“Bocca mia taci. A professò, è l’urtima portata, nun me fate rimpone er servizio.”

“Va bene. È solo che l’abbacchio al sangue mi ricorda l’agnello sacrificale.”

“Quanno se trattava de frattaje de vitello però nun me parevate tanto religioso.”

“Signore e signori”, prorompe l’oste mentre una luce ad occhio di bue lascia al buio l’intero ristorante, “ripulitevi i polpastrelli e votate i due finalisti della prima edizione di Carme alla brace!!”

La donna a fiori, squadrata dall’obeso marito che nel frattempo si è ripreso e sembra addirittura fiero di lei, dondola imbarazzata alla sinistra dell’uomo mentre alla destra, avvinghiato ai suoi menischi come un pavido geco, sorride senza un dente il monello biondo.

Una santa barbara di grappe viene deposta sui tavoli insieme a una legione di caffè sambucati e all’ampolla già piena per metà di preferenze.

“Chi voterà prof?”

“Il monello. Se vincesse la donna tempo che il marito potrebbe ricordarglielo a vita a suon di mazzate. E lei?”

“La donna. Dai tempi di Spielberg odio i bambini trionfanti.”

“Ci siamo amiche e amici, romaneschi e non. Mentre Carmen scrutina l’ampolla vi ringrazio per aver partecipato a questa serata in onore del quinto quarto e in memoria del poeta Giochino Belli. Se qualcuno si è sentito offeso dai nostri sonetti ci scusiamo, se ne ha tratto giovamento ce ne prendiamo il merito solo a metà e…

… appena visto er fonno ar bucaletto,

‘na pissciatina, ‘na sarvereggina

E, in zanta pace, sce n’annamo a letto.”

 

Un applauso liberatorio batte la sala mentre torna la luce e l’oste afferra le braccia dei due finalisti. “The winner is…sora Maria!!”

L’obeso si divincola dalla morsa dei camerieri cingendo sua moglie in un abbraccio che ricorda il prequel (e solo quello) delle nozze. Il bambino salta contrariato sulle zampe di grillo invocando il Var dalla boccuccia caravaggesca dischiusa a bestemmia.

“Ecco il vostro meritatissimo premio” declama l’oste consegnando la busta ai due sposi ricongiunti dal lucro. E dalla grappa d’Amarone.

Proprio osservarla la faccia della donna contrarsi in un’espressione di selvaggia cattiveria mentre esamina il frutto delle sue liriche fatiche.

“Che ed è, ‘no scherzo?”

“E perché mai, mia cara amica?”

“Ma so dù bijetti della metro.”

“Vorrebbe forse affermare che Roma non è la città più bella del mondo?”

“Sto gran fijo de na mignotta!!” Osservare l’oste tratto in salvo dai camerieri mentre bicchieri ed ossa d’abbacchio s’abbattono sull’arena in una canea di fischi e applausi.

Sottrarsi alla ferina bolgia e, prima di uscire, sentirsi tirare per l’orlo della giacca.”

“A sor maè,” sussurra il monello biondo, “ma questi me li posso tenè io?”

I due biglietti della metro cinguettano stretti alle dita tremanti del moccioso.

“Penso proprio di si.”

“Tutti e due?”

“Certo”.

“E vai! Domani ho svortato!!”. Mentre gli adulti si azzuffano, uscire nella sera dei miracoli preceduti dalla gabbietta d’ossa in casco biondo che corre fischiando felice.

E continua a farlo.

 

Germano Innocenti

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