- 10 marzo 2019, 09:53

“The House that Jack Built”, l’architettura degli incubi di Lars Von Trier

“The House that Jack Built” (in italiano “La Casa di Jack”) si ispira all’omonima filastrocca inglese della seconda parte del Settecento

“The House that Jack Built”, l’architettura degli incubi di Lars Von Trier

IL FILM

Torna Lars Von Trier dopo le polemiche per la presentazione di “Melancholia” al 64 Festival di Cannes quando si dichiarò ironicamente nazista e antisemita (lui che ha entrambi i genitori ebrei) dimostrando interesse per Albert Speer, “l’architetto del diavolo”, e Adolf Hitler.

“The House that Jack Built” (in italiano “La Casa di Jack”) si ispira all’omonima filastrocca inglese della seconda parte del Settecento, una sorta di nenia di derivazione ebraica o mediorientale che somiglia “alla fiera dell’Est” di Branduardi e che è diventata un’espressione idiomatica nel mondo anglosassone ma anche nel linguaggio cinematografico al punto che la neonata New Line, casa di produzione che finanziò Jackson per “Il Signore degli Anelli”, venne inizialmente chiamata “The House that Fred Built” per i considerevoli introiti percepiti per il Nightmare di Craven.

Coproduzione danese, svedese, francese e tedesca, “La Casa di Jack” è una creatura vontrieriana visto che Lars ne firma la regia, la sceneggiatura e il soggetto (con Jenle Hallund); ne esistono due versioni, una doppiata e vietata ai minori ma pesantemente censurata e l’altra, sempre vietata ma in inglese sottotitolato, che è l’unica meritevole d’attenzione.

Brilla Matt Dillon in un ruolo non facile e sicuramente scomodo ma anche l’Uma Thurman più fastidiosa che si sia mai vista e un Bruno Ganz in stato di grazia che è venuto a mancare poco dopo la lavorazione del film.

 

TRAMA

Jack è un ingegnere frustrato che sognava di diventare architetto ma è stato spinto dalla propria famiglia a compiere la scelta economicamente più vantaggiosa. In una sorta di seduta psicoanalitica o confessione col misterioso Verge (Virgilio), che vedremo solo nell’epilogo e che resta per quasi tutta la pellicola una semplice voce di sottofondo, Jack ripercorre la sua carriera di serial killer, iniziata negli anni Settanta, che lo ha portato ad uccidere più di sessanta persone ingaggiando una narcisistica partita a scacchi con la polizia che non l’ha mai preso.

Fra gli innumerevoli omicidi commessi egli ne sceglie cinque da raccontare al suo Virgilio e li suddivide in capitoli chiamati “incidenti”, in onore al primo crimine commesso proprio ai danni d’una petulante Uma Thurman rimasta a piedi con l’auto. Mentre la narrazione si evolve in un crescendo di violenza, ironia e realismo quasi documentaristico, Jack cerca il materiale giusto con cui costruire la casa dei suoi sogni e discorre di arte, caccia e vini da dessert col suo mentore che pur non giudicandolo mette in luce tutti i limiti della sua filosofia di uomo e assassino.

Fino all’epilogo metafisico Verge potrà sembrare una seconda coscienza che duetta con le smanie di grandezza del protagonista ma la catabasi finale ci rivelerà la sua effettiva esistenza come un’infernale creatura alla Hieronymus Bosch.

 

MR SOPHISTICATION

“Un architetto scrive la musica e l’ingegnere la legge” urla Jack, auto-ribattezzatosi Mr Sophistication in uno dei suoi deliri d’onnipotenza, contro la povera Jacqueline che lui chiama spregiativamente “Simple”. La ben nota misoginia di Von Trier raggiunge in questo film vette paradossali perché non solo i suoi “incidenti” sono tutti al femminile ma le vittime designate sono volgari caricature d’ingenuità o mediocrità così come le forze dell’ordine appaiono ottuse al limite della comicità involontaria.

L’ironia è la chiave che Lars utilizza per compiere un’operazione à la Nabokov e cioè portarci a simpatizzare col mostro attraverso la demolizione psicologica delle donne e l’impietosa rivelazione del proprio igienismo compulsivo.

La telecamera a mano e il realismo temporale delle aggressioni, senza flashback né montaggi accelerati, ci trascinano nell’unità d’azione eliminando qualsiasi filtro e così, soprattutto all’inizio, seguiamo l’apprendistato all’omicidio di Mr Sophistication come un discutibile tutorial sullo strangolamento.

Non c’è una rigida adesione al decalogo di quel Dogma 95 co-firmato dal regista danese esattamente ventiquattro anni fa perché “La Casa di Jack” può tranquillamente definirsi un film di genere ed è interamente costruito su scene d’azione e omicidi (anche se più di superficie che non superficiali) ma lo straniamento inteso come distacco dal sentimentalismo e dalla cosmesi borghese sono comunque chiaramente espressi.

Per tutta la durata della pellicola Matt Dillon si allenerà a sorridere di fronte a uno specchio per simulare quell’empatia tanto cara al genere umano cui (non) appartiene.

 

THE VALUE OF ICONS

A metà fra il rekombinant e il détournement situazionista Lars Von Trier alterna alla narrazione di Jack un pastiche di citazioni, a volte fuori contesto, che deformano la piattezza espressiva (voluta) del dialogo con Verge. C’è “Fame” di David Bowie che ritorna nei momenti più dissacranti del film ma c’è anche un filmato di repertorio di Glenn Gould che suona mugugnando alla sua maniera, ci sono spezzoni di cartoni animati e immagini di campi di concentramento, quadri di Gauguin e un’opera di Jean Gris che si fonde al viso della prima vittima ma soprattutto, come in Nymphomaniac, ci sono dei filmati che in maniera quasi didattica illustrano o anticipano la scena successiva.

Alcuni di questi innesti sono geniali (vedi Matt Dillon come il Dylan di Subterranean Homesick Blues) ma quello che maggiormente interessa all’architetto psicopatico è il valore delle icone: appassionato agli studi sulle rovine di Speer e ai segreti delle cattedrali gotiche egli ricerca il materiale perfetto per la casa ideale e quest’ossessiva spinta verso la perfezione segna anche i suoi omicidi coi corpi fotografati come le immagini d’incidenti automobilistici in Andy Wharol o disposti geometricamente come trofei di caccia.

Mentre Verge, col suo tono compassato, rappresenta l’elemento apollineo, Jack è il dionisiaco e la loro tragica complementarietà è ben sintetizzata  dall’albero sotto cui Goethe ha scritto i suoi massimi capolavori, sito all’ingresso del campo di concentramento di Buchenwald; la plasticità classica contro l’orgiastica rottura delle avanguardie estremizzata dalla tassidermia di Brontolo, il bambino lamentoso che dopo essere stato ucciso da Jack viene paralizzato col fil di ferro in un’eterna smorfia sorridente stile “l’uomo che ride” di Victor Hugo, una performance che ricorda l’azionismo viennese di Hermann Nitsch.

Un’arte “alta” ma anche altra vista la totale mancanza d’umanità che la abita e che ricorda l’agghiacciante simmetria della tigre blakiana, non a caso citato per il suo matrimonio fra il cielo e l’inferno.

 

LARS Vs TRIER

Al di là d’un finale che farà discutere, l’impossibile catarsi di Jack (che lo rende simile al protagonista di American Psycho) è la cifra espressiva del cinema di Lars Von Trier che è da sempre senza compromessi e che ricorda per la sua assoluta amoralità la poetica di De Sade, anche per la visione infernale della Natura.

Eppure, nonostante “La Casa di Jack” sia un film perfettamente riuscito che a tratti rievoca i fasti di “Antichrist”, è come se il regista danese si cannibalizzasse, a partire dalle autocitazioni ma anche attraverso il titolo, che compariva già ne “L’elemento del Crimine”, e il confine fra uno stile riconoscibile e la didascalicità è molto sottile.

La scansione quasi letteraria in capitoli e la naturalezza della violenza lo avvicinano all’isomorfismo e cioè alla tendenza da parte di alcuni autori a somigliare alla materia che vorrebbero criticare o da cui vorrebbero prendere le distanze. E l’ironia non basta a segnare il distacco.

 

CONCLUSIONI

Nell’ispirata analisi che Verge fa dell’infanzia di Jack quando da piccolo, giocando a nascondino, si rintanava in un canneto per (a suo dire) fuggire dal mondo mentre invece per il vecchio mentore l’intenzione era quella di lasciare una scia di canne spezzate per essere preso, si racchiude l’enigma d’un regista che vuole essere smascherato: dietro la provocazione e lo scandalo, dietro la chiara volontà di “épater la bourgeoisie” si cela il geniale gioco d’un ex enfant prodige che sposta sempre il limite in avanti per polverizzare pregiudizi e vincoli morali perché, come scriveva Kafka: “c’è un punto oltre il quale non c’è possibilità di ritorno. Quello è il punto da raggiungere”.

 

Germano Innocenti

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