“La grandiosa, quasi temeraria audacia di questa architettura [Palazzo dei Consoli, nda] produce un effetto assolutamente sbalorditivo e ha qualcosa di inverosimile e conturbante. Si crede di sognare e di trovarsi di fronte a uno scenario teatrale e bisogna continuamente persuadersi che invece tutto è lì, fermo e fissato nella pietra”
(Herman Hesse, Dall’Italia; Gubbio)
Alla base del Monte Ingino, incantati dalla grazia medievale della città di Gubbio che sembra raccogliersi come una nivea perla in un carapace di roccia, andare alla ricerca di Mastro Certaldo che ci svelerà i segreti della vera crescia eugubina, antenata della torta al testo perugina e della ciaccia tifernate; osservare la solenne mole del palazzo dei Consoli, simile alla Minas Tirith di Tolkien, che a Dicembre viene coronata dall’albero di Natale più grande del mondo esteso per qualcosa come trenta campi di calcio e delimitato da novecento corpi luminosi (stella inclusa) e proprio avvertire alle porte della città qualcosa di respingente, sensazione ben diversa dall’affabile docilità di Assisi (protesi nautica del Subasio), simile al corpo d’un’odalisca ricoperto d’oro zecchino.
Smorzando la fame con un aperitivo in Piazza Grande scovare poi la celebre Fontana del Bargello (o fontana dei matti) ed eseguire i tre tradizionali giri intorno alla vasca (“birate”) che si dice diano diritto alla patente da matti.
Sul finale del terzo periplo notare con la coda dell’occhio una furtiva figura avvicinarsi da tergo e prepararsi a respingere gli assalti d’un borseggiatore brandendo un ombrellino tascabile da cinque euro quando l’uomo, sul quintale e mezzo e barbuto come Little John, ci battezza con l’acqua della fontana aspergendola dalle dita tozze come birilli da bowling.
“Benvenuto a Gubbio. Io sono Tommaso”.
Aggrappati a un Sagrantino da quindici gradi, nero come un corvo inzuppato in un barile di petrolio, ascoltare questa corpulenta incarnazione (nell’etimo) dello spirito eugubino indottrinarci sugli usi e i costumi della città:
“Ora farò richiesta all’associazione “Maggio Eugubino” della sua patente in carta pergamena e nel giro di pochi giorni potrà ritirarla. Serve un piccolo contributo ma se mi offre questo calice di vino me ne occuperò io personalmente”.
“Tommaso posso chiederle due cose?”
“Solo se mi permette di replicare il vino. È la mia unità di misura.”
“Ho visto patenti da matto in vendita nei negozi di souvenir”.
“Certo. E a Napoli vendono ancora le lacrime di Maradona. Quelle sono fotocopie per turisti. Io le sto offrendo la vera tradizione di Gubbio, nata nel 1880 quando la patente veniva concessa a chi aveva assistito almeno tre volte alla corsa dei ceri del 15 Maggio.”
“Ok, ok, mi scusi. Non volevo sembrarle irrispettoso. Poi volevo sapere da dove …”
“… Shht! Non lo sente questo eco?”
“Quale?”
“Quello del mio bicchiere vuoto.”
“Ah ah ah. Va bene.”
Fissare Tommaso vuotare il secondo calice di Sagrantino nettando le labbra tumide con l’avambraccio da orso quindi sussurrare: “ Perché Gubbio è la città dei matti amico mio?”
“Ci sono varie teorie. Quella più cialtrona afferma che molto tempo fa un disco volante atterrò nelle vicinanze della città emanando radiazioni che fecero perdere il senno ai miei avi. Quella più folcloristica parla di qualcosa d’innato nel sangue che ci rende spericolati e viscerali, incoscienti e passionali, con una naturale tendenza all’autodistruzione.
Poi c’è la tesi scientifica, la più autorevole ma non per questo la più accreditata, che attraverso lo studio delle conformazioni rocciose limitrofe il perimetro urbano ha evidenziato una storica esposizione all’iridio, elemento tossico considerato la causa prima della leggendaria follia.”
“Lei cosa pensa?”
“Io, coerentemente col mio nome, non credo se non vedo.”
“Per me, come poeta, vale l’esatto contrario.”
“Prego?”
“Niente, continui pure.”
“Gubbio è una città chiusa, la sua storia è stata determinata dall’isolamento geografico che ha scolpito nella roccia il carattere dei suoi abitanti, restii a qualsiasi contatto esterno ma anche pronti a slanci d’inaudita generosità nei confronti di chiunque sia in grado di guadagnarsi la loro fiducia. Soprattutto l’isolamento ha inciso sull’amore …”
“Endogamia …”
“Esattamente. Per me la causa scatenante della follia eugubina va ricercata in secoli d’accoppiamento fra consanguinei.”
“Lei conosce Certaldo?” chiedere in contropiede fissando i grandi occhi castani dell’uomo ridursi a due fessure da salvadanaio.
“Lo conosco e non lo conosco. Lei come fa a sapere della sua esistenza? È un giornalista? O un poliziotto?”
“Troppo poco cinico per fare il giornalista, troppo poco romantico per fare il poliziotto. Sto solo facendo ricerche sull’originale crescia eugubina.”
“Beh allora Certaldo è la persona giusta.”
“Può indicarmi dove si trova il suo ristorante?”
Una risata simile a un latrato ci raggiunge allo stomaco.
“Per definire quel posto un ristorante ci vuole coraggio.”
“Può indicarmi dove si trova? Ho provato con Google e Trip-advisor ma …”
“Lei non ha capito. Certaldo appartiene a una Gubbio che sta lentamente sparendo. La sua figura è l’ombra d’un racconto di fronte a un focolare che nessuno accende più, ma quell’ombra è golosa della stessa cenere che ricopre la crescia. E la tradizione va di pari passo con … con …”
“ … con la magia.”
“Non so se sia quello il termine giusto ma non è nemmeno quello sbagliato. In ogni caso le disegnerò su questo tovagliolo come arrivare a casa di Certaldo ma deve promettermi una cosa.”
“Devo rientrare prima di mezzanotte?”
“Ha sbagliato favola. Non deve mai lasciare il sentiero di mattoncini gialli.”
“Tradotto in italiano?”
“Si limiti alla crescia. E ricordi che l’ombra è golosa di cenere. E di racconti”.
Uscire nel pomeriggio dal cielo idrofilo infilando nella tasca la grottesca mappa del tesoro disegnata da Tommaso su un tovagliolino da caffè; stampando quest’ultimo sul cruscotto in quest’Italia di santi, poeti e navigatori (satellitari) guidare alla volta di Certaldo attraverso un’Umbria rovesciata a pelle di coniglio come in un horror di Pupi Avati.
Al fondo del sentiero seminato a ghiande, sotto due querce secolari e la dentellatura dei cipressi, inquadrato da una baita di legno a due piani che incide il cielo fumè col pigro tracciato di un camino, un uomo dai capelli chinati con occhiali in montatura spessa e un’età imprecisata fra i quaranta e i settant’anni ci aspetta tenendo per il collare un enorme pastore maremmano che scopre i denti.
“Chi è lei? Cosa vuole?”
“Solo un po’ di crescia. E due ciance se possibile.”
“Chi le ha parlato di me?”. Il ringhio del pastore sembra il basso continuo d’una sega a catena.
“Il Professore. Il Professore di Castello.”
Un buffetto al cane che inizia a guaire amichevolmente e un principio di sorriso riscaldano l’atmosfera.
“Quel vecchio scrittore pentito. Come sta?”
“Coriaceo e ironico. Ma l’ho conosciuto soltanto una sera al Sasso. Non so come sia abitualmente.”
“Entri pure”.
Un alto focolare con lunghi alari in ferro battuto consuma aghi di pino e pigne liberando un aroma balsamico nella stanza piena di litografie della vecchia Gubbio e d’una stramba pianta sul davanzale della finestra.
Sedere a un tavolo in radica di noce apparecchiato per due e orfano di menu mentre Certaldo serve un tagliere di salumi e un cestino della mitica ciaccia.
“Allora cosa vuole sapere?”
“ …”
“Non finga perplessità. Nessuno capita qui per caso. La maggior parte dei miei clienti è morta o non è più interessata a ciò che si può trovare in questo luogo.”
“Voglio conoscere l’origine della torta al testo.”
“Interessante. Ormai tutti vogliono sapere solo i finali delle storie, mai gli inizi. Men che mai le origini.”
“Io detesto i finali. Li ritengo arbitrari.”
Osservare l’immenso pastore maremmano lasciarsi cadere affianco a noi lucidandoci la punta degli anfibi con la lingua.
“Come si chiama?”
“Non lo so. Non me l’ha ancora detto. Può accarezzarlo se vuole. Non è aggressivo, attacca solo per difesa, come la maggior parte degli uomini.”
Infilare in bocca un trapezio di crescia grattando la nuca del grosso cane senza nome.
“Com’è?”
“È ottima e sa … di fuoco,” sorridere imbarazzati.
“Ci sono sapori perduti che restano fra le pieghe della nostra memoria gustativa, come il coccige è il ricordo d’una coda e il prurito alle scapole l’epifania delle ali svendute per la razionalità dell’era moderna. Lei non ha mai mangiato il fuoco ovviamente ma c’è stata un’era nella storia del mondo in cui gli uomini si nutrivano solo di fuoco e sogni e guardavano la volta stellata con rispetto e amore e mai con bramosia di conquista.”
“Com’è nata la crescia eugubina Certaldo?”
“Nel IV secolo avanti cristo gli Umbri entrarono in commercio coi Romani che amavano molto i cereali e la polenta ma anche pane e focacce, in particolare il testaccio (testacium).”
“Come il quartiere?”
“Penso che il nome derivi proprio da una collina artificiale nata dall’accumulo dei testi (o coppi) che venivano posti sull’alimento successivamente ricoperto di brace. Ne parla anche Virgilio in un poemetto chiamato “Appendix Virgiliana”.”
“Quindi la torta al testo è di origini romane?”
“Non abbia fretta, non ho detto questo. La crescia eugubina è precedente ai contatti col popolo romano e si fonda su dei riti religiosi risalenti addirittura al III secolo avanti cristo. Ma forse una dimostrazione pratica può valere più di mille parole. La lascio solo qualche minuto con la bestia: si fida di me?”
“Non abbia alcun Gubbio.”
(Continua…)