Ogni anno la ferrea programmazione turistica dei villaggi-vacanze o la scontistica plastificata dei last minute ingenerano nel nostro poco vacanziero animo un jet lag alla rovescia: ci si rinchiude in casa per sfuggire alla grata curriculare che l’industria alberghiera vorrebbe imporci obbligandoci a un’iperventilante ansia da prestazione.
L’ozio romano o la pura e semplice contemplazione dei nostri ombelichi, che dovrebbero trasformare noi e le nostre sdraio in lancette solari, vengono sostituiti da una via crucis di giochi di gruppo, sport estremi o itinerari enogastronomici da percorrere in apnea come la ruota panoramica di Chernobyl o un filare di turche fumanti.
Resta il sogno neo-patrizio d’un’amaca caraibica dondolata dal vento su una distesa di mandorle tritate, il becco d’una cannuccia da cocktail che spunta da un bicchiere appannato e il miraggio d’un oceano puro come gli occhi d’un neonato, equamente diviso fra aironi dalle zampe acquerellate e glutei color mogano spartiti da fili interdentali in assenza di gravità.
Sotto le palme che solleticano il cielo ustionato, irreali come la rispettiva versione 3D, i pollici opponibili servono solo per strappare linguette alle lattine di Coca Cola che correggeranno (poco) abbondanti colate di rum agricolo.
Il pensiero d’un possibile tsunami o d’una guerra civile tenuta a bada da mandingo con ray-ban a specchio, Uzi in calcio d’oro e collane con denti di leone, non ci tange come il sorriso venereo delle prostitute bambine o il divieto di balneazione per gli squali: noi ci sottrarremo alle isteriche falangi di croceristi in pantaloni caki pronti a salivare ad ore pasti come cani di Pavlov.
Perché l’intrattenimento riempie lo spazio mentre il piacere lo svuota.
Tra l’oblio tropicale e la catena di montaggio del divertimento in serie resta un’unica soluzione: il fascino della Riviera.
Rimini, Riccione, Cattolica, Gabicce sono i fari screpolati dell’eterna provincia che scopre le scaltre diottrie alla bassa marea esistenziale: insegne policrome di coppe gelato, neon e led che trasformano le notti nella rotazione pesante di Mtv, con l’aroma di crêpes alla nutella e zucchero filato che cariano i denti dei consumatori passivi, sale da gioco con luci strobo vietate agli epilettici, sesso di salsedine sul bagnasciuga e camerieri acrobatici in gilet di pelle con tatuaggi a vista.
Cenare nel quadrivio di via Dante con un tavolo prenotato direttamente sull’asfalto, allibiti dalla macroporzione di passatelli al branzino e storditi da un Pinot Grigio ghiacciato che ammicca alle sottane di tiepida piada che pavesano il cestino mentre l’immota marea umana si dà allo struscio serale in quattro lingue.
L’incessante respiro dell’Adriatico leviga i polpacci femminili maculati di brillantini e modella i profili da Isola di Pasqua degli imberbi playboy in risvoltini e camice aperte, l’odore di doposole e pesce alla brace si mescola all’acqua nebulizzata dai ventilatori che controluce sembrano fiori che starnutiscono.
Il limoncello disinfetta il palato poco prima di far ritorno all’hotel che con la sua effimera architettura sembra un modellino di cartone assemblato da un Gaudì al dodicesimo passo di rehab ma prima di finire ibernati sotto l’aria condizionata della camera da letto passeggiare fra i sentieri bengalini di “tutto a un euro” sedotti dalla meravigliosa inutilità della micro-elettronica del sud est asiatico.
L’alba coi suoi riflessi di magnesio raggiunge i balneari cimiteri di ombrelloni puntati nell’arena come carri armati di Risiko e quando il bagnino ci scorta alla nostra postazione come una maschera teatrale restare imbambolati fissando coppie varicose lasciare impronte podaliche sul bagnasciuga.
“Oggi pioverà.”
“Ma se non c’è una nuvola in cielo!”
“Non bisogna guardare il cielo ma ascoltare il vento.”
L’uomo, in anacronistici occhiali a mosca e con la pelle lavorata dal sole fino al cuoio, fa sbocciare il nostro ombrellone continuando a mugugnare.
“Un calciatore non guarda la palla, in fila al supermarket si guarda il braccio della cassiera e non il numero di persone che ci precede.”
“E al mare si annusa il vento”, chiosare.
“Esatto. Negli ultimi anni ci sono venti mai sentiti prima qui in Riviera. E il tempo cambia in due minuti. Come in alta montagna.”
Osservare la piastra verde bottiglia lasciando scorrere lo sguardo fino alla ferita dell’orizzonte divertiti dai gabbiani impettiti sugli scogli e dalla torretta con la bandiera dei pirati ormai sbiadita.
“IL PICCOLO GIULIO È ATTESO AL BAGNO 33!!”
“BEN TROVATI A RADIO RIVIERA. LA NOSTRA TRSMISSIONE È OFFERTA DAL RISTORANTE MARE BLU, DA CINQUANTA ANNI GRIGLIAMO TONNELLATE DI PESCE PER VOI …”
Le palpebre improvvisamente pesanti calano il sipario sulla spiaggia.
“NONNO PAOLO È ATTESO AL BAGNO 33!!”
Magari Giulio è il nipote di Paolo, riflettere sconnessi dal sonno, lasciate che si perdano in questa modernità che aggancia persino le cellule dell’anima.
“RISTORANTE LA BELLA CATTOLICA, ORGE DI PESCE GRIGLIATO MISTO A SCENE PORNO-SNUFF, CECCHINI SLAVI VI BRACCHERANNO DA TORRETTE DI BAGNINI E SE SOPRAVVIVERETE VINCERETE DUE ANCELLE TAILANDESI ESPERTE IN PRANOTERAPIA E RIFLESSOLOGIA PLANTARE …”
Risvegliarsi di soprassalto annaffiati dalle gelide dita della pioggia e osservando un cielo improvvisamente indaco riparare sotto il gabbiotto di legno del bagnino che sorride sornione a braccia conserte come Mastro Lindo.
A dieci metri dalla spiaggia una funzionale tavola calda con tavolini di ferro e sedie plastificate ci attrae con la scritta: Frit & Spritz.
Riparati dal telo dai colori mariani ordinare un “Frit & Spritz” mentre un ciclone biblico batte il litorale come un’energica vecchia un materasso e di lì a cinque minuti trovarsi di fronte a una scialuppa di carta gremita di calamari e gamberi misti a filiformi carote e zucchine. E ovviamente all’iconico Spritz: sfiziosa alternativa al solito tagliere o gustosa presa per il culo?
Infilare in bocca un gamberetto dorato e socchiudere gli occhi come una squirter alla gloria culinaria del Frit & Spritz concepito da quello che scopriamo essere un vero e proprio ristorante dal misterioso nome di Kon Tiki.
“Cos’è, giapponese?”
“Non lo so, le mando il titolare.”
“È il nome d’un’imbarcazione scandinava mi pare. Quando abbiamo rilevato il ristorante non ne abbiamo chiesto il motivo al vecchio proprietario. Arrivo!!”
Mentre fiamminghe di pesce azzurro e duetti di spaghetti allo scoglio e cozze e vongole alla marinara si susseguono come coppie di scolari in gita ordinare un fritto misto merlato di piada romagnola take away osservando un gruppo di amici con fisarmonica e amplificatore a rotelle ascendere al piano superiore (terrazzato) scrutando il cielo che va schiarendosi come un nevaio in disgelo.
Riguadagnando l’auto col parallelepipedo d’alluminio sul palmo della mano, osservare le senescenti coppie danzare sul tetto del Kon Tiki come personaggi di carillon rotti mentre le dolci note della fisarmonica s’insinuano fra gli stabilimenti fantasma e gli alberghi cintati di piscine per bambini ed erba finta; di lontano il rumore delle slot e le risate preregistrate incorniciano la Las Vegas romagnola come un monitor televisivo trasformando ogni spettatore in protagonista.
Per una notte.
Per un’estate lunga una notte.