Non sappiamo quale siano state le motivazioni – se si esclude la disciplina di partito - con cui i cinque deputati cuneesi, Fabiana Dadone (M5S oggi ministro della Pubblica amministrazione), Chiara Gribaudo (Pd), Enrico Costa (FI), Flavio Gastaldi (Lega) e Monica Ciaburro (FdI), hanno affrontato ieri alla Camera la votazione sul taglio dei 345 parlamentari.
Certo è che la rappresentanza territoriale di un’area periferica del Paese, qual è la Granda, difficilmente è stata messa in cima alle loro preoccupazioni.
Nell’elezione per la Camera il Piemonte 2, la circoscrizione elettorale di cui fa attualmente parte la nostra provincia, passerà infatti da 22 a 14 deputati; la rappresentanza senatoriale (interessa l'intera regione) da 22 a 14.
Dopo il voto di ieri (solo 14 i contrari), il numero degli abitanti per deputato aumenta da 96.006 a 151.210; quello per ciascun senatore da 188.424 a 302.420.
Dalle prossime elezioni, dunque, il Piemonte perderà 16 deputati e 8 senatori.
Si obietterà che questo val bene uno schiaffo alla “casta”, e che in questo modo si riducono le spese dello Stato (l’equivalente di due caffè all’anno per ogni italiano).
Sarà pure vero.
E’ innegabile che a dettare l’agenda sia stato il Movimento 5 Stelle che può, a buon diritto, intestarsi la “vittoria” avendo costretto tutti i partiti, a partire dal Pd, oggi suo alleato di governo, ad adeguarsi.
Ma non è tanto questo l’aspetto su cui si vuole porre l’accento, quanto piuttosto il fatto che se già oggi il Cuneese conta poco a Roma – il caso dell’autostrada Asti-Cuneo ne è la plastica rappresentazione – da domani conterà ancora meno.
Ci si obietterà che non è la quantità, ma la qualità dei parlamentari che conta. Obiezione accolta, se non fosse che ormai da troppo tempo non sono i cittadini-elettori a scegliere i loro rappresentanti, bensì le oligarchie dei rispettivi partiti.
Siamo passati dal “Porcellum” al “Rosatellum”, cadendo dalla padella nella brace, ed ora ci toccherà affrontare l’ennesimo cambio di sistema elettorale.
E già, perché ora, come prevede l’articolo 138 della Costituzione, entro tre mesi, dal momento che la legge ha ottenuto la maggioranza assoluta dei due terzi alla seconda votazione soltanto alla Camera e non al Senato, il testo può essere sottoposto a referendum.
Referendum – lo ricordiamo – che può essere richiesto da un quinto dei membri di una Camera, da 500 mila elettori o da cinque Consigli regionali. Se questo dovesse avvenire, la consultazione popolare si svolgerebbe nella prossima tarda primavera. Nel caso di una conferma, entro 60 giorni il governo dovrà ridisegnare i collegi elettorali.
L’impressione che si ha – disposti ad essere smentiti dai fatti – è che ci troviamo in presenza di un provvedimento adottato, ancora una volta, con lo spirito della gatta frettolosa che fa i gattini ciechi.
Così è successo per le Comunità Montane, così è avvenuto per le Province, così rischia di essere per il Parlamento: si apportano modifiche (anche draconiane) senza tenere nel debito conto gli effetti e le ricadute.
Un dato, per quel concerne il contingente, è certo: gli attuali deputati e senatori (quindi anche i nostri) possono tirare un respiro di sollievo.
Il governo e la legislatura, in virtù degli effetti tratteggiati, vengono blindati.
Chi invocava il voto si rassegni: tra possibile referendum, riforma elettorale e conseguente ridefinizione dei collegi, le urne si allontanano e la legislatura, che sembrava effimera, “rischia” di arrivare a scadenza naturale.
Poco importa, a questo punto, se la terra di Giolitti ed Einaudi resterà senza rappresentanti a Roma.
La Granda dovrà ancora una volta – come in fondo ha sempre fatto – fare da sè.