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In Breve

| 27 febbraio 2013, 07:47

Cucina in televisione: la ricetta del successo

Cucina in televisione: la ricetta del successo

 All'inizio fu Wilma De Angelis. Negli anni '80 condusse una serie di trasmissioni televisive (Telemenù, Sale, pepe e fantasia, La spesa di Wilma, Complimenti allo chef e soprattutto A pranzo con Wilma) che ebbero un immenso successo. Devo confessare che i primi rudimenti di cucina li ho imparati, oltre che da mia nonna e mia madre, proprio da lei, che si presentava come una sorta di zia che ti insegna facili trucchetti, furbe scorciatoie, i primi rudimenti, ricette facilmente riproducibili. Quindi non una cuoca eccelsa, ma che – almeno nel mio caso - ebbe il merito di iniziare all'arte della cucina persone, soprattutto giovani, che non erano neppure capaci di farsi cuocere un uovo, perché tanto avevano in casa la mamma che ci pensava. La De Angelis, appunto, non era una “chef”, era una cuoca, e neppure lo faceva di mestiere, essendo in verità una cantante

Poi la cosa è, -se vogliamo dirla così, degenerata. Ormai non c'è rete televisiva che non abbia almeno uno spazio dedicato alla cucina. E di trasmissioni ce ne sono tante, e differenti. Nella tv generalista ci sono quelle pseudo didattiche, dalla Prova del Cuoco della Clerici, alla Parodi, che si mantengono su livelli di difficoltà medi, vale a dire alla mia portata. Mentre, soprattutto nei canali dedicati delle tv a pagamento, veri chef (ne cito alcuni, quelli italiani quali Filippo La Mantia, Enrico Cerea, Bruno Barbieri, Cracco, Bastianich, Cannavacciuolo, Davide Oldani, Gianfranco Vissani) invece propongono alta cucina, che guardo solo per il gusto di guardare ma le cui ricette sono anni luce lontane dalla mia portata. E ci mancherebbe, loro sono cuochi stellati, milionari, famosissimi, quasi semi-dei, da un certo punto di vista. Tutti con un aspetto molto patinato, glamour, raffinato, ad eccezione di Vissani, che ha conservato quella ruvidezza e “rozzezza”, con le sue manone da macellaio tipiche dei cuochi (non chef) di un tempo, quando cucinare non era chic, piuttosto un lavoro di sacrificio passato nell'anonimato delle cucine.

Fra i cuochi da me preferiti cito uno degli antesignani della gastronomia-show. Jamie Oliver, faccia da bamboccio, dai tratti tipicamente inglesi, ha costruito, dal nulla, un impero fra ristoranti sparsi per il mondo, canali dedicati (Food Tube), trasmissioni didattiche, libri (io ne ho comprati suppergiù una decina). E' un tipo simpatico, non se la tira, in apparenza modesto, e i suoi piatti non sono mai trascendentali. Inoltre ha avuto il grande merito di creare una campagna contro il junk food in età scolare che in U.K. ha avuto un enorme seguito.

Altre trasmissioni, invece, sono molto più divertenti, perché colgono piuttosto il lato trash del cibo. Parlo, ad esempio, di Man vs Food dove un tipo dall'aria da “tamarro” gira l'America per cimentarsi in mangiate pantagrueliche. Mega hamburger di svariati chili, cibi piccantissimi o decine di pizze ingurgitate una dietro l'altra. Notevoli sono anche gli esseri umani che di solito popolano i locali dove il tipo sfida se stesso: non ce n'è uno che sia sotto il quintale di peso. Altro esempio, forse un po' più didattico, è Orrori da gustare. Qui il conduttore passa da un capo all'altro dell'emisfero terraqueo per assaggiare la vera cucina locale: pipistrelli al barbecue, larve vive, sangue caldo, o frutti disgustosi come il durion. Lui, comunque simpatico, mangia e gli piace sempre tutto (ad eccezione del durion, che ha un odore fra la cipolla marcia e la puzza di piedi, dicono).

Il successo dei programmi di cucina (vedi su tutti Masterchef), dei cuochi in tv, dei blog a tema e della editoria culinaria (io ne so qualcosa, nel mio piccolo, avendo pubblicato un libricino “Ho fatto una frittata” ed. Nerosubianco dedicato appunto alle omelette che ha avuto ben tre ristampe) è destinato a durare. In tempi di crisi, il cibo è ancora una delle poche cose rimaste di cui non se ne può fare a meno.



Monica Bruna

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