Le squadre io non le ho mai fatte. Le facevano i due più forti oppure i due più grandi. O semplicemente chi portava il pallone. Già, il pallone. Un anno, per Natale, dopo mesi di velate richieste, i miei me ne avevano regalato uno di cuoio, proprio come lo sognavo da sempre, bianco, rombi neri e con quella scritta “official ” che lo rendeva intoccabile. Avevo subito deciso che non potevo rovinarlo e che quindi sarebbe stato appeso nella sua retina gialla sopra al letto, accanto al poster di Scirea. Le squadre perciò continuavano a farle altri. E un pallone di cuoio quando andavamo sul prato di Villa Sara c’era sempre. A volte duro, durissimo, che ti spaccava la testa quando lo colpivi. Ma sempre meglio del Super Tele, ingovernabile. “Lo sgonfiamo un pochettino? ”
Con il pallone giocavamo ovunque. A qualsiasi ora. Certo, il cortile era il suo regno, ma andavano bene tutti i posti. Non era ancora stato inventato il cartello con la scritta “Vietato il gioco del pallone ”. Le porte si facevano con due maglie oppure con due borse di nylon, a misura variabile sulla base dei passi dell’incaricato che le preparava. Poi ci pensava chi stava in porta a restringerle ancora un po’, mentre l’azione di gioco era distante. Era sempre molto difficile trovare il portiere, mestiere ritenuto poco gratificante e con un mucchio di insidie, quali pallonate in faccia e grosse responsabilità in caso di gol. Andava quindi parecchio di moda il portiere volante oppure il “facciamo un gol a testa? “ dove speravi di prenderne subito uno per uscire al più presto. A volte si risolveva anche con le porte piccole, larghe poco più del pallone e senza presidio. Ma che davano poche soddisfazioni, in quanto non si poteva tirare da lontano.
Il massimo comunque era quando si giocava su un prato, non importa se pieno di buche oppure irregolare. Su un prato si potevano fare cose impensabili in cortile, come l’entrata in scivolata alla Romeo Benetti oppure il tuffo su un colpo di testa. Fantasia pura. Su un prato potevi metterti le scarpe da calcio con i tacchetti! Tacchetti di ferro intercambiabili. Giravamo con un sacchettino con dentro la chiave per svitarli e con un paio di vecchi di ricambio, da utilizzarsi in caso urgente di necessità. Niente da dire, su un prato ti sentivi molto di più un calciatorino vero.
Interessante era anche il discorso dell’arbitraggio, ovviamente autogestito. Su alcune questioni c’era poco da discutere, fallo di mano ad esempio è fallo di mano. Punto. Ma tipo quando ci si inerpicava sul fuorigioco oppure su temi definibili solo con dei riferimenti inesistenti era una faccenda mica da ridere. “E’ rigore, tiro io!” “Macchè rigore, se sei ancora fuori area…” “Gol!” “No, non è gol, è alto, era quasi sulle piante, non hai visto?!” Ma una quadra che andasse bene la si trovava sempre in un attimo. Era facile andare d’accordo e essere felici. Scrive Gianpiero: “Come spiegheresti a un bambino che cosa è la felicità? Non gliela spiegherei. Gli darei un pallone per farlo giocare.”