- 21 agosto 2016, 06:00

Apocalypse Sound, parte finale

e ci siamo.....

Le esegesi sono legione ma mentre tornano gli alienanti sintetizzatori dei Coppola e sfilano i titoli di coda una cosa è certa: non c’è niente di rassicurante in tutto questo. L’atmosfera stagnante della giungla, col continuato bagno di cadaveri più spaventosi di qualsiasi finzione orrorifica, ci rimarrà dentro insieme alla lucida follia di Brando che disegna con la sua glabra e imponente individualità, il limite di qualsiasi sistema di potere.

“Solo per i morti la guerra è finita davvero” scriveva Pavese e forse neanche per loro, aggiungerei io. Ma c’è una lezione universale cui possiamo attingere (ri)guardando Apoclaypse now ed è la stessa lezione impartitaci dalle pitture nere di Goya e cioè che l’orrore è dentro di noi e che solo da questa consapevolezza possiamo trarre la forza di non trascinare la nostra libertà fino alla fine del fiume. E della nostra identità.

Un altro film pochi anni dopo (1982) delineerà un personaggio che ricorda il colonnello Kurtz e quel film è “Blade runner”.

La giungla in questo caso è una Los Angeles distopica e panorientale con ombrelli-led ed una pioggia crepuscolare che dilava facciate d’edifici crivellate da luci intermittenti. E’ un futuro prossimo che di fantascientifico ha molto poco quello rappresentato dal capolavoro di Ridley Scott e anche qui l’accompagnamento sonoro sono i sintetizzatori di Vangelis. Non credo sia un caso. Certo la tessitura musicale è più strutturata e non priva di parti in pianoforte e di brani più melodici (basti pensare al sax di “Love theme”) ma anche qui un’atipica figura d’investigatore (H. Ford, già presente come visto in A.N) dà la caccia a dei “replicanti” e cioè a degli organismi simili agli esseri umani e creati dall’industria genetica per essere schiavi operanti al di fuori della terra.

Non mi soffermerò sull’ombra paranoica che tale film lanciò sul piano bioetico e in termini di degrado ambientale né sulle splendide scenografie che raccontavano un futuro “invecchiato” con palazzi fatiscenti e luridi chioschi che più che ammiccare all’asetticità di certa fantascienza di genere creavano un genere in sé. Ciò che mi interessa è la seduzione che i “replicanti” operano su Deckart quando questi capisce che una di loro, di cui poi si innamorerà, è in grado di provare se non sentimenti quantomeno autocoscienza.

Nati per essere “usati” e morire dopo solo quattro anni questi “lavori in pelle” (così li definisce sprezzantemente l’untuoso mandante del protagonista) alcuni di loro si ammutinano e riescono a raggiungere il nostro pianeta tentando di ottenere dal proprio demiurgo altra vita. La frontiera in questo caso non è la guerra ma il confine fra corpo e anima e cioè il passato, un passato che opera sotto forma di “innesti” artificiali nei replicanti e che sopravvive attraverso vecchie foto negli esseri umani.

“Ho fatto cose discutibili” sussurra Roy Batty (Rutger Hauer) al suo creatore e nella memorabile scena finale chiederà ad Harrison Ford cosa si provi a vivere nel terrore, la sua abituale condizione di schiavo.

L’orrore di Kurtz.

Il terrore di Batty.

Entrambi braccati da un cacciatore perché hanno osato opporsi ad un potere che li ha costretti ad annullare la propria individualità in nome d’un bene superiore (la propria patria per Brando, il genere umano per Hauer). Ed entrambi eserciteranno una violenza assoluta per sottrarsi alla violenza legalmente giustificata contro cui dissentono considerandola “discutibile” ed “ipocrita”.

Il mitologema comune è il male individuale contro il bene collettivo e cioè la ratio essendi di “Arancia Meccanica” di Kubrik: meglio un deliberato atto di cattiveria che non un bene imposto dall’alto che sacrifichi il libero arbitrio sull’altare d’una presunta sicurezza sociale.

Certo, mi si obietterà che paragonare un colonnello impazzito nella Cambogia della fine degli anni Sessanta ad un replicante di Philip Dick può sembrare forzato ma sono tanti i possibili punti di contatto oltre ai già citati sintetizzatori e alla ribellione anarchica à la Burgess. Sia Willard che Deckart restano affascinati dalle proprie prede che scelgono di morire e forse lo desiderano anche. Il primo sente di capire sempre più Kurtz a mano a mano che si addentra nella giungla e nei dossier che ne documentano la caduta mentre il secondo, salvato dalla mano di chi dovrebbe uccidere, riscopre nel robot quella compassione totalmente assente nei suoi persecutori.

“Ci sono attimi per la compassione in guerra” dice Kurtz e il braccio teso di Rutger Hauer ad Harrison Ford è un atto di bontà gratuita visto che il replicante sta per morire e potrebbe non solo lasciarlo cadere ma addirittura ucciderlo. Al di là delle suggestioni sonore che accomunano le due pellicole il clima di malsana decadenza, tropicale e urbano, ha un che di irrecuperabile che rende entrambi i film profondamente pessimisti.

Tale nichilismo è accentuato in A.N. dalla voce fuori campo che pone lo spettatore in una prospettiva critico-poetica nei confronti della trama. In Blade Runner la voce fuori campo non c’è e se ne sente onestamente la mancanza (io l’ho sentita); è stato Harrison Ford a suggerire di toglierla a Scott perché “altrimenti il detective non scopriva niente”, anticipato dall’onniscenza del narratore interiore. In termini puramente commerciali la cosa ovviamente funziona dando maggiore ritmo al film anche perché la principale preoccupazione di Ridley (cambiò sceneggiatore in corso d’opera per questo) era di non (s)cadere nell’intellettualismo.

Blade Runner è un film di pancia, A.N.  un film viscerale. Non è la stessa cosa.

Tutta la migliore fantascienza è un’evoluzione in peggio delle attuali dinamiche capitalistiche, una sorta di nefasta profezia che trasforma l’ottimismo tecnologico e il neoliberismo in scenari degradati che hanno, o dovrebbero avere, la funzione d’un monito. Il romanzo di Dick e il film di Scott non fanno eccezione. La clonazione, come il sonno della ragione, può partorire mostri.

Ma nella sua drammaticità Blade Runner è un’opera che apre degli squarci di luce che A.N. non si sogna neanche di concepire. Se c’è una pellicola che visivamente ha saputo rappresentare a perfezione il tramonto dell’Occidente quell’opera è Apocalypse now perché mentre in Blade Runner vibra una malinconia sentimentale quasi byroniana nel film di Coppola l’amore è un sentimento perdutamente lontano.

“Bisogna morire come città per rinascere come individui” scriveva Henry Miller e i replicanti di Scott con le loro iridi sintetiche fanno da specchio ad un’umanità che presa nel suo insieme è un disperato meltin pot destinato all’estinzione ma singolarmente ha ancora una speranza.

Non c’è speranza invece per i Brando-Kurtz che proprio nell’individualismo hanno trovato l’abisso da cui pensavano di essere fuggiti che non può avere come sottofondo le aperture melodiche di Vangelis ma solo dei gelidi sintetizzatori e le edipiche urla di Jim Morrison.

Quando Martin Sheen esce dal tempio sporco di sangue l’inquadratura è identica a quella di Rutger Hauer che si avvicina ad Harrison Ford appeso ad una trave metallica e vicino a cadere. L’assassino designato e la preda che non si rassegna ad esserlo. Altra importante similitudine.

In conclusione potremmo dire che Apocalypse now e Blade Runner rappresentano il canto del cigno d’un’umanità disperata che non ha seguito il consiglio di Jimi Henrix (“…quando il potere dell’amore supererà l’amore per il potere…”) ed è rimasta schiacciata da un desiderio di potere che è diventato delirio d’onnipotenza, bellico e scientifico. Bisogna accettare l’inquietudine che deriva da questa gibraniana sconfitta, magistralmente espressa (sintetizzata) dai sintetizzatori di Vangelis e dei Coppola, e capire che l’individualismo può essere la strada solo se non sfocia in relativismo assoluto.

In quel caso l’orrore e il terrore sfumano i ricordi come lacrime nella pioggia e si ha solo il tempo di morire o far morire (“buttate la bomba, uccideteli tutti”).

 

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De Mazan