- 18 ottobre 2016, 06:54

Emanuela Orlandi: l’omertà sta in cielo

Faenza cita Shakespeare:”…in questa vicenda tutto è così incredibilmente vero da sembrare impossibile” mentre la Cei definisce il suo film “un’opera che presenta delle superficialità”

Emanuela Orlandi: l’omertà sta in cielo

Il 22 giugno del 1983 Emanuela Orlandi, quindicenne figlia d’un messo pontificio, sparisce in sinistre circostanze allertando la famiglia e ponendo le basi per un mistero lungo trentatré anni.

Le sue foto tappezzeranno la città entrando nell’immaginario collettivo come l’emblema d’un malaffare strisciante che in quegli anni coinvolgeva la trinità Stato, Chiesa e Mafia (nelle sue tante declinazioni post-anni di piombo).

Il regista (Roberto Faenza) parte dall’ipotesi narrativa d’una giornalista inglese (Maya Sansa) che viene inviata dal network per cui lavora a Roma in occasione dell’inchiesta “Mafia Capitale” per riaprire il caso Orlandi; quando ingenuamente chiederà al proprio direttore responsabile (Shel Shapiro) cosa c’entri un “cold case” di più di trent’anni prima con quel caos, mediatico e non,  lui risponderà laconico:” A lot”.

Avvalendosi della collaborazione d’una collega italiana (Valentina Lodovini) che ha a lungo intervistato Sabrina Minardi, ex del calciatore Bruno Giordano ma soprattutto di Enrico “Renatino” De Pedis, boss e protegè del Vaticano, la giornalista tenta di ricomporre un perverso mosaico che coinvolge lo IOR, il Banco Ambrosiano, lo Stato Pontificio, i servizi segreti e la banda della Magliana. Su quest’oscura cortina che si serra attorno al “pericolo rosso” che in quegli anni tanto preoccupava la maggioranza politica italiana (e non solo) domina la mefistofelica figura di Monsignor Marcinkus, presidente dello IOR dal 1971 al 1989, accusato della morte di Papa Giovanni Paolo I e dello scandalo del Banco Ambrosiano nonché nel film mandante del De Pedis nell’ipotesi del sequestro Orlandi.

Marcinkus (la cui frase:”non si può mandare avanti la Chiesa con le Ave Maria” la dice lunga sulla natura poco spirituale del suo mandato sotto il pontificato Wojtyla) secondo le dichiarazioni del pentito Calcara sarebbe stato il personaggio di raccordo fra il Vaticano e Cosa Nostra per attività di riciclaggio di denaro sporco e, più specificamente, come riferì l’allora ministro del tesoro Andreatta, sarebbe stato implicato nello scandalo Ambrosiano che ammontava a circa millecinquecento miliardi di lire.

Al di là di questa vicenda, tuttora da chiarire, che portò alla morte in circostanze misteriose di Calvi e Sindona e all’assoluzione dello stesso Marcinkus da parte della Cassazione e della Corte Costituzionale per l’accusa di concorso in bancarotta fraudolenta grazie all’articolo 11 dei Patti Lateranensi (quello della non ingerenza dello Stato Italiano verso gli Enti centrali della Chiesa) il nucleo del film sta tutto nel rapporto-intervista fra la tenace giornalista italiana e Sabrina Minardi (una bravissima Greta Scarano); quest’ultima diventa, dopo un’iniziale reticenza, un occhio privilegiato sulla vita del De Pedis e sull’infinita trama di amicizie altolocate che egli vantava in quegli anni fino a raccontare di aver visto il corpo morto della Orlandi finire occultato in un sacco insieme a quello del piccolo Nicitra.

Un passato di tossicodipendenza e alcune incongruenze temporali hanno reso le sue testimonianze inattendibili per la Magistratura ma non per il regista Faenza che forse solo con lei riesce a dare un po’ di spessore psicologico ad una galleria di personaggi altrimenti appiattiti dall’incolore albume della Storia. Quando, ormai canuta e imbolsita, dichiara che lei “a vent’anni la morale manco sapeva cosa fosse” e che era bello andare a cena coi ministri e la gente importante visto che Renatino era un latitante si, ma all’italiana, e quindi libero di sfilare davanti alle volanti della polizia, illumina col suo candore privo di malizia il malcostume nazionale di fondere tutto il potere, da quello istituzionale  a quello criminale, in una pasta informe dai tempi del Satyricon di Petronio fino ai festini di Villa San Martino.

Un altro elemento interessante della pellicola è il maggiore risalto che viene dato alla banda dei “testaccini”, di gran lunga più pericolosa della letteraria e ormai sdoganatissima banda della Magliana che in una delle tante testimonianze riportate viene definita “un gruppo di dilettanti che non sapeva neanche sparare”.

Ignorata l’ipotesi (perorata anche dal celebre esorcista Padre Amorth) che la Orlandi sia finita vittima d’un giro di prostituzione minorile e droga che covava proprio all’interno del sacro recinto pontificio, la tesi conduttrice del film è che Emanuela sia stata una semplice pedina nel braccio di ferro finanziario fra lo IOR e la malavita romana, braccio di ferro sospeso proprio dal De Pedis che ottenne, al posto del saldo del proprio ingente credito, d’essere sepolto nella Chiesa di Sant’Apollinare, fra Santi e non lontano dalla scuola di musica frequentata ai tempi dalla ragazza.

Il cameo di Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, che continua a lottare per scoprire la verità su quell’infausto giorno e che parla d’un dossier custodito in Vaticano che rivelerebbe come sono andate veramente le cose si salda ad un finale aperto che infittisce il mistero e lascia l’acquolina in bocca ma non cancella il fatto che le indagini siano state archiviate dalla Magistratura nel 2015 e che anche il caso Orlandi, come tanti altri più o meno celebri di quegli anni, resti una vergogna nazionale e un dolore privato per i famigliari che non sanno e forse mai sapranno cos’è successo veramente ad Emanuela.

Al di là della colonna sonora di Teho Teardo ( sempre suggestiva) “la verità sta in cielo”, che deve il suo titolo a una frase che Papa Bergoglio sussurrò all’orecchio di Pietro Orlandi e cioè “lei è in cielo”, è un film-inchiesta alla vecchia maniera con un’enorme mole documentale accumulata in quattro anni e più di lavoro ma la sua frammentazione e lentezza, unite ad un’evidente piattezza emotiva, lo rendono un’opera per chi di quegli anni conserva un’ottima memoria o nutre nei loro confronti un certo feticismo complottistico.

Faenza cita Shakespeare:”…in questa vicenda tutto è così incredibilmente vero da sembrare impossibile” mentre la Cei definisce il suo film “un’opera che presenta delle superficialità”.

Nel paese dei muri di gomma e dei sepolcri imbiancati, dei confessionali violati e delle private miserie e pubbliche virtù l’unica, omertosa, verità è che nella seconda parte del secolo scorso Stato e Chiesa si sono resi complici, e spesso mandanti, di gesti criminali che dietro alibi politiche e interessi nazionali nascondevano vizi e ingerenze assolutamente personali, confezionando punte di sadismo con talare disinvoltura e ministeriale cinismo.

Da sempre e per sempre sul sangue di cittadini e fedeli.

Due aneddoti: quando la troupe era in procinto di girare la scena della morte del De Pedis in via del Pellegrino alcune persone del posto hanno creato dei problemi perché conoscevano il boss e prima delle riprese del rapimento della Orlandi si sono materializzati due uomini armati che volevano interrompere il tutto.

Forse aveva ragione Manuel Agnelli quando cantava “non si esce vivi dagli anni Ottanta”.

Criticabile artisticamente sotto molti punti di vista “la verità sta in cielo” nella sua scabra nudità protocollare non (s)cade nella fascinazione estetica da “giovane criminale” à la Genet che tanti misteri insoluti hanno evocato e continueranno ad evocare trasformando in seppiato intrattenimento ciò che andrebbe chiarito una volta per tutte ma ci viene da rispondere al pur bravo Faenza che sostiene di essere arrivato ad un metro dalla verità che ci sono metri che a volte durano secoli e, nel caso di Santa Romana Chiesa, millenni.

 

                               Per scrivere all'autore overmovie@targatocn.it                                                                                                                             

De Mazan