- 22 gennaio 2017, 10:58

The McFounder

Forse quando Ray citava la frase di R.W.Emerson:” un uomo è sempre ciò che pensa tutto il giorno” non si riferiva tanto alla propria perseveranza negli affari quanto alla medesima citazione presente in “Tropico del Cancro” dove il Miller “senza soldi né speranze” sostiene di pensare continuamente al cibo

The McFounder

Nel 1954 Ray Croc, rappresentante dei frullatori Multimixer e del sogno americano (per lui ancora intatto), riceve un ordine eccessivo da un ristorante californiano e attraversa più Stati per andare a conoscere chi riesca a lavorare così tanto da necessitare di ben 8 frullatori quando lui fatica a piazzarne anche solo uno. In tanti anni nel settore della ristorazione Ray non riesce a credere ai suoi occhi quando, appena giunto a San Bernardino, conosce Dick e Mac McDonald (nella vita Richard e Maurice) nel loro ristorante letteralmente preso d’assalto dai clienti così prima decide di provare il servizio e la qualità del cibo quindi di farsi raccontare dai due fratelli la loro storia cercando di ca(r)pirne il segreto.

Perché è proprio da questi due affiatati pionieri che nascerà la matrice del marchio più famoso al mondo nel momento in cui, dopo aver tentato senza successo la carriera nel cinema, decisero di aprire un fast-food che grazie all’innovativo sistema espresso rivoluzionò l’antiquato sistema dei drive-in.

Ray rimane incantato dall’economia dei gesti e dalla standardizzazione del lavoro all’interno della cucina del McDonald’s che serve quattro alimenti più bibite in sacchetti di carta e stoviglie di plastica con un tempo d’attesa di massimo sessanta secondi e senza un preciso luogo fisico dove consumarlo ma a rapire la sua fantasia sono “gli archi d’oro” disegnati da Dick e cioè la “M” stilizzata del loro cognome che sorregge la struttura esterna del ristorante come in una pompa di benzina dipinta da Hopper.

E qui inizia la folle corsa all’oro di Kroc che acquista i diritti del nome in cambio d’una percentuale sulle vendite delle affiliazioni perché in una notte insonne ha avuto una visione mistica dell’America invasa da nuovi McDonald’s e così inventa, più o meno inconsciamente,  il concetto di “franchise” riproducendo in serie il “sistema espresso” creato da Dick e Mac ed estendendo al mondo della ristorazione la catena di montaggio fordista.

Per farlo si ipoteca la casa senza dirlo alla moglie e cerca nuovi affiliati fra gli amici del circolo che frequenta (che si rivelano però inaffidabili) quindi inizia a selezionare personalmente figure in grado di gestire proficuamente le attività cavalcando indubbiamente dei luoghi comuni ma d’altronde cos’è il McDonald’s se non il più grande luogo comune al mondo?

La parte più interessante del film, e di certo la meno conosciuta ai più, è la diatriba fra i fratelli McDonald’s, tesi a conservare la purezza della loro innovazione, e la virale voglia di espandersi di Kroc che tra sponsorizzazioni della Coca Cola e il discutibile frappè in polvere per risparmiare sui costi di refrigerazione capisce, ben consigliato da quello che poi diverrà l’amministratore delegato del suo impero, che l’unico modo per guadagnare veramente e al tempo stesso non subire il veto di Dick e Mac su ogni possibile innovazione è quello di acquistare i terreni su cui sorgeranno i nuovi McDonald’s.

Dal business degli hamburger a quello immobiliare fino all’offerta di 2,7 milioni di dollari fatta a Dick e Mac per avere l’esclusiva sul marchio McDonald e divenire (di fatto retroattivamente) “the founder”, la parabola di Raimond “Ray” Koc è la classica storia americana d’un signor nessuno, tralaltro figlio d’immigrati cechi, che dopo una vita passata ad inseguire grandi occasioni (rivelatesi poi dei fiaschi colossali), fiuta l’affare del secolo (e non solo) e decide di continuare a mordere finchè non ottiene ciò che vuole. Dalla sua ci sono tanti anni d’esperienza nell’osservare cucine e ristoranti, un’ottima dose di perseveranza e l’assenza di scrupoli tipica del capitalista di provincia.

Ma “the founder” non è soltanto questo altrimenti il regista John Lee Hancock si sarebbe limitato all’ennesimo biopic ben girato e meritevole di encomi per l’originalità di aver mostrato il retroscena poco noto sulla nascita d’un nome che, volenti o nolenti, è entrato di prepotenza nell’immaginario collettivo globale.

Quando Michael Keaton convince i due fratelli a permettergli di diffondere la loro idea dice:” McDonald’s può diventare la nuova chiesa americana e non è aperto solo la domenica ma sette giorni su sette […] Fatelo per la nazione”. In questo pastiche di feroce capitalismo e retorica populista che pretende di affiancare alle croci delle chiese e alle bandiere dei tribunali gli archi d’oro dei McDonald’s c’è tutta l’affascinante ambivalenza d’un personaggio che potremmo tranquillamente avvicinare a Trump, anche se il film è stato girato ben prima del trionfo del Donald alle presidenziali, e  che da un lato troviamo odioso per il cinismo dimostrato nel calpestare tutto e tutti pur di arrivare alla vetta ma che dall’altro seduce per l’assoluta fedeltà ad un miraggio che lo possiede integralmente.

Può esistere un misticismo del successo che ai valori sostituisca il valore e all’ostia l’alimento-base della cultura americana e cioè l’hamburger?

Kroc credeva in questo e il suo inequivocabile trionfo (almeno sul piano finanziario) è stato possibile grazie alla crasi fra la creazione d’un ristorante per la famiglia media americana e una visione del libero mercato simile ad un conflitto globale:” gli affari sono guerra. Cane contro cane. Anzi ratto contro ratto. Se il mio avversario sta affogando io gli verso dell’acqua in faccia”.

Da una parte questa (anti)etica reaganiana volta a massimizzare il profitto e fondata su quella che Debord definiva “la società dello spettacolo”, dall’altra la gestione famigliare dei due fratelli che non potevano (e non volevano) calpestare gli antagonisti in affari avendo concepito la catena di montaggio alimentare come un modo per abbattere i costi e venire incontro ai consumatori e non di sacrificare la qualità ai fini di diffondere il modello McDonald’s per il mondo.

Eppure c’è un po’ di Kroc nei fratelli e viceversa perché Dick sognava di diventare una star di Hollywood mentre Ray difende agli esordi l’integrità del sistema espresso da chi lo vorrebbe ibridare come a significare che nel brand più famoso al mondo c’è sia una componente solidamente repubblicana e quindi conservatrice che una componente dinamico-capitalistica.

Il film  funziona perché non è né un’agiografia né un film di denuncia (tipo “Supersize me” per intenderci) e deve una parte consistente del suo ritmo all’eccellente prova di Michael Keaton perfetto nel rappresentare l’essenza più pura del capitalismo con le sue rughe d’espressione e l’eloquio da imbonitore da fiera: ruba un’idea non sua e non si accontenta di moltiplicarla all’infinito arricchendosi ma vuole che persino l’invenzione gli venga attribuita così liquida i due fratelli di fatto cancellandoli dalla Storia che si sa “è scritta dai vincitori”, scarica poi anche sua moglie rubando quella d’un affiliato colpevole solo di averlo aiutato e quando viene chiamato a tenere un trionfale discorso sulla propria ascesa spaccia per sue le parole del vinile motivazionale che ascoltava quando era solo un umile rappresentante.

C’è un’altra figura cinematografica con le stesse caratteristiche di Kroc ed è “il petroliere” di Paul Thomas Anderson interpretato da un perturbante Daniel Day Lewis. Anche lì la stessa fame d’arrivare impastata d’ una religiosità posticcia e d’un senso della famiglia puramente strumentale che, a differenza di Keaton, Lewis trasforma in una violenza che ben confeziona la parabola di declino morale che ne accompagna la riuscita negli affari. Tale declino morale è impossibile in Kroc perché egli si pone in un’ottica di assoluta amoralità ed è anzi in grado di costruire un’etica sulla propria assenza d’etica che pretende, retrospettivamente, di aver sempre praticato.

Forse quando Ray citava la frase di R.W.Emerson:” un uomo è sempre ciò che pensa tutto il giorno” non si riferiva tanto alla propria perseveranza negli affari quanto alla medesima citazione presente in “Tropico del Cancro” dove il Miller “senza soldi né speranze” sostiene di pensare continuamente al cibo.

Come a dire che gli estremi si toccano. E a volte si fanno persino un hamburger.

 Per scrivere all'autore overmovie@targatocn.it

 

                                                                                                            

De Mazan