Gentile Direttore,
a proposito dell’articolo incentrato sull'allevamento della lumaca e apparso su un noto quotidiano del territorio, esprimo la sorpresa e lo stupore di vedere ospitate su tale quotidiano – e con sempre maggior frequenza – notizie sull’elicicoltura che, purtroppo, non trovano riscontro con la realtà dei fatti.
Innanzitutto, allevare oggi “lumache” non è assolutamente un affare. E’, invece, un grossissimo rischio a cui va incontro chi si cimenta in un’attività per la quale mancano notizie disinteressate, certe e verificate, sulle tecniche di allevamento del mollusco, essendo le poche, scientificamente sperimentate, non sufficienti a garantire un pur minimo livello di redditività al capitale investito nell’impresa.
Intendo riferirmi, in particolare, al tanto propagandato “allevamento a ciclo biologico completo” con produzione “all’aperto”, realizzato entro “recinti a terra”. Nei confronti di questa tecnica, la Scienza ufficiale non è assolutamente in grado di contrastare le temibilissime patologie che inevitabilmente compaiono fin dall’inizio dell’attività, ma che emergono nella loro gravità solo in tempi successivi all’impianto, annullando – dopo appena un paio d’anni – tutti i più encomiabili sforzi intesi a controllarle.
Il problema delle innumerevoli malattie che colpiscono le lumache negli allevamenti intensivi non è comunque l’unico ostacolo. Esiste, invero, tutta una lunga serie di inconvenienti, tuttora irrisolti, o risolti in maniera frammentaria, che riguardano non solo la complicata biologia dei molluschi terrestri, ma anche i parametri ambientali delle strutture di produzione, i tipi e le modalità di somministrazione degli alimenti, il rispetto delle condizioni igienico-sanitarie dei vivai, e via elencando. Ciò nonostante, si susseguono periodicamente (e a ritmo sempre più serrato) articoli di stampa che, con ingiustificato entusiasmo, lasciano sottintendere la possibilità, da parte dell’elicicoltura, di offrire opportunità di lavoro e di guadagno: anche magari prospettando la fattibilità di attività complementari all’allevamento, quali ad esempio le preparazioni gastronomiche particolari (caviale di lumaca), oppure l’utilizzo della bava (ricca di elicina), sciroppi contro la tosse, ecc., che altro non sono che pratiche già conosciute e sfruttate fin dai tempi più antichi.
Ecco cosa dice in proposito il Mingioli (1909): «…i cosiddetti segreti di medicina popolare, profittando della cieca credenza riposta nella efficacia medicinale delle chiocciole, hanno messo in commercio una polvere bianca, sotto il nome di elicina, che probabilmente preparano essiccando le lumache e polverizzandole, consigliandole come efficacissime per l’asma... e confermano così l’uso delle lumache come rimedio appropriato nelle malattie bronchiali» (sic).
A fronte di quanto sopra, occorre dunque prestare la massima attenzione alle svariate problematiche, ed esaminare con senso critico e propositivo la vexata quaestio sotto tutti gli aspetti. E ciò perché una certa editoria – spacciata spesso per “scientifica” – ospita lavori non sempre originali e quasi mai adeguatamente approfonditi in cui è possibile riconoscere, con una certa costanza, la scarsità di solidi retroterra sperimentali. Ne consegue che molte affermazioni risultano puramente astratte e tali da disorientare i non addetti ai lavori.
Se si pensa che le conoscenze di base sugli elicidi, pur numerose sotto l’aspetto zoologico, quasi mai riguardano la fase applicativa in allevamento, oppure che molti libri contrabbandano per tecnologia zoocolturale sperimentata ciò che altro non è che una semplice ipotesi, o una speranza, o un’illusione dell’autore, o fors’anche un tentativo di raggiro, si comprende quale effetto dirompente possano avere certe “manifestazioni promozionali sulla chiocciola” qualora non vengano apertamente dichiarate le difficoltà tecniche a cui va incontro chi si avventuri nell’impresa, con l’intento di realizzare il ciclo biologico completo (c.b.c.): “dall’uovo alla chiocciola adulta”.
Confondere le idee è tutto sommato abbastanza agevole: basta dire che il consumo delle lumache a scopo alimentare è in forte incremento, che l’offerta di prodotto non riesce ad adeguarsi alla crescita della domanda, e dare ad intendere che con poca terra e con modesti investimenti è possibile avviare un’attività economicamente valida e – con la crisi del momento – anche socialmente utile.
Ma sull’argomento è indispensabile un ulteriore contributo di chiarezza.
Se si afferma che il consumo nazionale (di difficilissima valutazione) è circa il doppio di quanto si produce negli allevamenti (!?), per cui, la differenza, deve essere compensata con acquisti dall’estero, si fa credere a chi non è addentro al problema che sia sufficiente impiantare parchi di allevamento per adeguare l’offerta alla domanda.
Siccome, però, gli allevamenti a c.b.c. non sono in grado di produrre alcunché (per le problematiche anzidette), il ricorso all’importazione o – in alternativa – alla raccolta diretta dei molluschi in natura diventano condizioni obbligatorie per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Per quanto concerne il primo caso, l’importazione di chiocciole diventa ogni anno più difficile, in quanto i paesi tradizionali fornitori (Romania, Slovacchia, ecc.) stanno drasticamente riducendo il proprio export (ad esempio impiantando in loco proprie industrie di trasformazione), oppure perché intendono proteggere (giustamente) le popolazioni eliciche autoctone dall’effettiva minaccia di estinzione (v. Ungheria).
A tale riguardo, e solo per inciso, si fa notare che l’abbondanza di materia prima da parte dei paesi esportatori non è dovuta a produzioni d’allevamento, bensì al fatto che in quei luoghi non vi è la consuetudine (tipicamente italiana e francese) di mangiar lumache.
Quanto, invece, alla raccolta in natura, essa è un’usanza molto diffusa in alcune regioni italiane e, in Piemonte, è praticata per favorire l’opercolatura della Helix pomatia che, venduta nel tardo autunno, spunta prezzi di mercato di 30 - 35 euro al chilogrammo, contro i 3 -4 euro di quando in primavera si trova nello stadio di “corritrice”.
Questo allevamento, cosiddetto parziale o da ingrasso, ha la durata di pochi mesi appena e, se attuato con il massimo rispetto delle norme igienico-sanitarie, garantisce produzioni finali pari al 70-75% del peso iniziale immesso. In questo breve lasso di tempo (che non va oltre la chiusura della conchiglia), non vi è la possibilità che si scatenino le pericolosissime “patologie di gruppo” che sono purtroppo una costante del predetto c.b.c., soprattutto se condotto col metodo cosiddetto “italiano” dei recinti a terra in ambiente aperto.
Erogatore di un modesto reddito integrativo, il ciclo parziale presenta tuttavia il grave inconveniente di rendere incompatibili i due seguenti aspetti dello stesso problema:
- l’aspetto produttivo-reddituale: che praticato in abbinamento alla raccolta dei funghi, delle castagne, ecc. consente all’agricoltore, soprattutto montano, di ottenere (in senso metaforico) la cosiddetta “13ma mensilità”;
- l’aspetto ecologico-conservativo: che impone la necessità di proteggere gli areali di diffusione degli elicidi dalla minaccia (tutt’altro che remota) di una loro rarefazione o, peggio, di una loro estinzione, come è capitato in Francia ove l’Escargot de Bourgogne è quasi del tutto scomparsa dalle aree in cui era tradizionalmente abbondante;
Si segnala, al riguardo, che il Comune di Borgo San Dalmazzo – capitale scientifica e gastronomica della chiocciol – ha istituito nel 2010 un’apposita “area di protezione” di 107 ettari, a difesa della biodiversità di tutte le specie appartenenti al genere Helix: in particolare la Helix pomatia alpina.
Ciò detto, molto altro vi sarebbe da aggiungere.
Motivi di brevità non consentono, purtroppo, l’approfondimento – in questa sede – degli argomenti trattati. Approfondimento che, pur doveroso in relazione alla complessità della materia, rischierebbe di diventare troppo specialistico e non comprensibile a tutti.
Concludo pertanto questo primo approccio interlocutorio, confermando solo in parte la condivisione della “chiusa” all’articolo in questione, limitatamente alla parte in cui si auspica l’emanazione di una legge nazionale che disciplini tutto il settore dell’allevamento elicico.
In questo ambito, dovrebbe essere sancita la necessità di ritornare ad una seria ricerca scientifica – obiettiva ed imparziale – da svolgersi a livello di istituti universitari o di istituzioni scientifiche pubbliche.
In Italia, il progetto riguarderebbe la riproposizione tout court del lavoro di sperimentazione e coordinamento, svolto dal 1° centro di elicoltura di Borgo San Dalmazzo dal 1971 al 1984, in collaborazione con ben 10 università italiane (Torino, Milano, Bologna, Padova, Perugia, Pisa, Siena, Bari, Sassari e Palermo), 3 straniere (Francia, Austria e Germania) e con il supporto del C.N.R. Nel contempo, una collana scientifica – intitolata Quaderni di Elicoltura – ha provveduto a divulgarne i risultati sperimentali, previa presentazione e discussione negli annuali convegni di Borgo San Dalmazzo.
Tale raccolta, di cui si rimpiangono i contenuti di serietà e di alto rigore metodologico, ha avuto il grande merito di offrire a tutti – studiosi, docenti, ricercatori, operatori – la possibilità lavorare e collaborare nell’interesse dell’Elicicoltura, smentendo le molte fantasiose teorie sulla fattibilità zoocolturale dell’allevamento a c.b.c., basato ad arte sui seguenti presupposti:
- il miraggio della notevole prolificità delle chiocciole;
- l’illusione che il centinaio di uova deposte nell’anno da ogni adulto potessero tutte schiudersi e completare il ciclo di sviluppo;
- l’assoluta inesistenza di patologie, di malattie parassitarie e di altre di natura epizootica (batteriosi e micosi);
- l’illusorietà che certi parametri ambientali fossero ”buoni per tutte le occasioni”, senza alcuna differenziazione relativa alle esigenze biologiche ed ecologiche delle specie allevate;
La riproposizione della ricerca sperimentale diventa pertanto la condizione fondamentale affinché l’elicicoltura possa giungere a forme di allevamento completamente “autonome”, senza dover ricorrere all’approvvigionamento diretto in natura (= ciclo parziale), o – peggio – all’acquisto dall’estero (finché dura) con l’aggravante di far credere, ai potenziali interessati, che si tratti di lumache autoctone prodotte a ciclo completo.
L’agognata ricerca scientifica da riproporre dovrebbe essere, nel contempo, di base ed applicativa.Le scienze di base dovrebbero approfondire le conoscenze di biologia, ecologia, etologia, patologia, parassitologia, riproduzione ed accrescimento, mentre le scienze applicative avrebbero il compito di studiare nuovi sistemi di allevamento che non siano le solite installazioni all’’aperto, su substrato terroso, rivelatesi ormai superate poichè aleatorie e per nulla produttive.
Il tutto in una moderna visione ecologica ed economica di uso razionale delle risorse ambientali. In mancanza di quanto sopra, ed a prescindere dalle molte fantasiose teorie che circolano sulla zoocoltura esaminata, l’allevamento della chiocciola rimane un “non allemaneto” alla stessa stregua dei fantomatici lombrichi, rane e cincillà.
Con sincera cordialità, porgo distinti saluti,
Dott. agr. Mario Bongioanni, ex direttore del 1° Centro di Elicicoltura di Borgo San Dalmazzo