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In Breve

| 23 settembre 2017, 05:00

Per chi suona la Campania

Perché, come diceva Picasso:” Mi dite di venire a Roma perché c’è il Papa, io vi dico di venire a Napoli perché qui c’è Dio”.

Per chi suona la Campania

“Vedi Napoli e poi muori” o muori dalla voglia di vedere Napoli.

Affrontare l’autostrada verso il capoluogo partenopeo mentre Agosto incontra Settembre nella linea bicolore del mare e fare una sosta nella catena Sarni gustando una cassatina cò ‘na tazzulella è caffè che nel tentativo d’arginare il consueto digiuno prandiale aizza ancora di più la fame reclinando il nostro volto nell’inespressiva ferocia dello squalo di Spielberg.

Aggirarsi nel termitaio del centro storico con auto in tripla sosta e vespe a due centauri sorpresi dalla bellezza di alcuni palazzi radenti la fatiscenza di altri che sembrano ammassi di pasta mal-lievitata e infine parcheggiare in una cantina video-sorvegliata che sembra un incrocio fra una colombaia etrusca e un rifugio antiaereo stupiti da una dozzina di voliere con canarini stipati all’ingresso per rilevare eventuali fughe di gas come nelle miniere del secolo decimonono.

Il Lungomare Caracciolo (uno dei più belli al mondo) ci aspetta al tramonto gremito di podisti e stranieri, militari e vigili, ambulanti e scugnizzi vestiti come rapper di Secondigliano la cui espressione malandrina ci ricorda la definizione che Erri De Luca diede del suo popolo accordandogli “una naturale sveltezza di riflessi”; sorseggiare un Moscow Mule in bricco di rame che fa tanto distilleria clandestina mentre dal parterre del Vomero Posillipo sgrana una  stola di luci intermittenti come un pugno di lucciole scagliate dalla mano della sera.

Pagare il drink col mix di tapas in pasta d’olive e pomodoro apprendendo scioccati che la “militarizzazione” del Lungomare è dovuta ai sempre più frequenti accoltellamenti fra minorenni che si danno al periferico esodo per gustare la marina notturna all’arma bianca, celebrando involontariamente quel matrimonio fra giovinezza e crimine che è la cifra di questa perduta e perdutamente bella città.

Prenotare da “Pasqualino”, che sforna pizze dal 1898, e arrivati in zona fare i conti con la mucillagine dell’abusivismo partenopeo che allinea per ogni ristorante due o tre parcheggiatori scaglionati in modo feudale tipo “vassalli/valvassini/valvassori”, quindi dopo un’offerta “libera”, così libera che se non viene offerta vale l’asporto chirurgico dei pneumatici, sedere di fronte a un cameriere che sembra un incrocio fra un caratterista di Sergio Leone e un Pulcinella licenziato.

Ordinare antipasto di mare e cuoppo di pesce (in cornucopia di carta oleata) aspettando una margherita di bufala con baffo di basilico mentre la vita scorre nella città di Napoli come un errore di sistema ripetuto e corrotto che frattura ogni argine trascinando con sé con monsonica violenza l’arroganza della Storia.

Nel segno della croce del cameriere al momento della mancia vibra tutta l’irrazionalità religiosa d’una città abituata ai morti ammazzati ma pronta alla guerra civile per un’edicola votiva profanata. Coi polpastrelli ancora gelati dal Limoncello di Sorrento, radere il vuoto del dinosauro notturno del San Paolo ripensando al pitocco misticismo delle lacrime di Maradona smerciate in fiale o allo scenografico miracolo di San Gennaro che raccontano più di qualsiasi dietrologia la passione dei napoletani per l’inganno.  E l’autoinganno.

Perché, come diceva Picasso:” Mi dite di venire a Roma perché c’è il Papa, io vi dico di venire a Napoli perché qui c’è Dio”.

 

                                    

Germano Innocenti

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