- 23 ottobre 2017, 06:00

It 2017: “Gli adulti sono i veri mostri”

Eppure la sua “adolescenzialità”, come taglio narrativo e pubblico di riferimento, è anche il suo limite visti i tanti difetti riscontrati da chi il libro lo conosce e non aveva neanche apprezzato la mini-serie anni Novanta

IL FILM

Dopo la deludente miniserie in due puntate anni ’90 torna al cinema l’indiscusso capolavoro di Stephen King con un budget decisamente superiore ed incassi già da capogiro.

Inizialmente opzionato da Cary Fukunaga (“True Detective”) che poi ne ha lasciato la regia all’argentino Andrès Muschietti (“La Madre”) limitandosi a co-sceneggiarne il plot, It (“chapter one” nella versione originale) è co-prodotto da Barbara Muschietti, sorella del regista, e si avvale delle musiche di Benjamin Wallfisch (Annabelle 2; Blade Runner 2049) e per la parte grafica della fotografia di Chung-hoon Chung e delle scenografie di Claude Parè (L’alba del pianeta delle scimmie).

Nel cast dei “perdenti” arruolati da Muschietti brillano Jeremy Ray nella parte del timido e sovrappeso Ben ma anche Sophia Lillis, forse la rivelazione del film, che presta gli occhi chiari e i capelli rossi (dove il nostro cuore brucia) a Beverly Marsh. Sottotono Finn Wolfhard nei panni di Richie “Boccaccia” Tozier mentre Jaeden Lieberher (“Bill Tartaglia”) fa il verso a Sean Astin dei Goonies e Bill Skarsgard è addirittura sconvolgente nella versione 2.0 di “Pennywise, il clown ballerino”.

 

TRAMA

In una spettrale Derry (cittadina inventata, come Castle Rock, da Stephen King) il piccolo Georgie scompare durante un acquazzone dopo essere stato mutilato da un’ignota creatura mentre inseguiva in un rigagnolo la barchetta impermeabilizzata con la paraffina dal fratello Billy.

E’ questo il preludio d’una serie di eventi che vede da una parte “It”, la millenaria entità che vive nelle fogne della cittadina e che appare alle persone della cui paura si nutre sotto forma d’un grottesco clown, e dall’altra, “il club dei perdenti” e cioè Bill, Beverly, Ben, Eddie, Mike, Stan e Richie, i sette “losers” che prima si imbattono singolarmente in lui e poi decidono di dargli la caccia affrontando le proprie fobie nel più classico dei riti di paesaggio.

“A Derry le persone scompaiono molto più che in altre parti” afferma un solenne Ben (che nella riduzione di Muschietti assume un ruolo più rilevante rispetto al romanzo) e precisamente ogni 27 anni il Male sembra risvegliarsi nella sonnolenta provincia kinghiana nutrendosi di giovani vite che vanno ad ingrossare le fila degli scomparsi, sorta di morlockiano tributo di sangue o metafora sociale d’un’impossibile fuga dalla realtà piccolo-borghese.

Nella casa di Neibolt street, che nell’immaginario kinghiano era la summa di tutte le case maledette di Lovecraft e che invece la coppia Parè-Chung ha trasformato in un’illustrazione alla Tim Burton, avverrà lo scontro finale fra i perdenti e Pennywise in uno scenario che ricorda visivamente il finale di stagione di True Detective (non a caso la penna da cui scaturisce è quella di Cary Fukunaga).

 

“GLI ADULTI SONO I VERI MOSTRI”

It 2017 è girato come il tipico slasher-movie anni Ottanta e non è un caso che nel Cinema Capitol che viene inquadrato a un certo punto fra i film in programmazione ci sia oltre al “Batman” di Tim Burton anche “Nightmare 5 on Elm Street” visto che la successione allucinatoria di paure ricorda la craveniana sospensione fra incubo e realtà della saga di Freddy Krueger.

Gli adulti qui non sono banditi come in “It Follows”  ma esistono sotto forma di farmacisti concupiscenti, madri obese e iperprotettive, padri alcolisti e vagamente incestuosi, indifferenti o autoritari fino al sadismo, insomma un vasto campionario degno d’un atlante di patologia criminale che spinge giustamente Bill e soci a fuggire nei Barren perché persino un clown con la dentatura di Alien e la giovialità d’un serial killer è preferibile all’anaffettività d’un genitore che ti spinge ad aver paura di lui.

 

NON SI ESCE VIVI DAGLI ANNI CINQUANTA

Stephen King scrive It in un doppio registro narrativo, ambientando la storia nella Derry anni Cinquanta quando i perdenti sono ancora dei ragazzini, e facendoceli tornare da adulti negli anni Ottanta; la struttura a flashback gli consente di tenere sul filo del rasoio il lettore ma aumenta anche la nostalgia dei personaggi sempre sospesi, come i palloncini del clown (“qui galleggiano tutti”) fra la malinconia e l’orrore.

Muschietti, compiendo una geniale operazione di marketing, fa fare un salto di 27 anni alla sua creatura ambientando negli anni Ottanta questo primo episodio “adolescenziale” e traslando nel nuovo millennio il secondo che uscirà nel 2019: questo permette a chi lesse “It” negli anni Ottanta di riconoscersi ancora di più nelle vicende del club dei perdenti e di chiudere presumibilmente il cerchio attualizzandone l’epilogo.

Se da un punto di vista commerciale questa scelta è premiante (e lo dimostrano i risultati al botteghino) da un punto di vista filologico essa tradisce lo spirito di It poiché la Derry anni Cinquanta è un microcosmo di citazioni che non serve solo a dipingere uno sfondo ma a definire un’atmosfera. Non è un caso che Richie “boccaccia” Tozier ne esca tremendamente danneggiato, lui che diverrà speaker radiofonico formatosi coi grandi successi anni Cinquanta ma più in generale i “New Kids on the Blocks” di Ben o l’heavy metal ottantiano di Bowers e soci non possono reggere il confronto col rock di Elvis.

Si può attualizzare un classico e allora ben venga lo Shakespeare dei fratelli Taviani ambientato in carcere, il “Titus” con Antony Hopkins in una Roma quasi felliniana o il “Romeo e Giulietta” di Baz Luhrmann solo che Stephen King, per sua stessa ammissione, non è un artista ma “soltanto” (si fa per dire) un ottimo artigiano e parte essenziale della sua grandezza (e motivo principale della sua difficile riuscita cinematografica) è proprio la morbosa smania descrittiva che fa della sua scrittura qualcosa di così visionario che o la si rende nella sua totalità o la si tradisce mirabilmente come è stato fatto con “Shining”.

E Muschietti ci perdonerà se non l’accostiamo a Stanley Kubrick.

 

PENNYWISE

In un’opera che cerca di cucire insieme gli episodi memorabili del libro ricorrendo a jump scares e montaggi accelerati figli d’un horror postmoderno  che ha molto poco a che vedere con quello amato dal King cinefilo e poi scrittore il ruolo di mattatore va a Bill Skarsgard nei panni d’un Pennywise che regge il confronto con la leggendaria interpretazione di Tim Curry: “le reinterpretazione di questo squinternato personaggio sta a quella di Tim Curry come il Joker di Heath Ledger a quello di Jack Nicholson” (Total Film).

E ancora: “Pennywise con la sua fronte che pare essere di porcellana crinata, il suo look a base di muffa e sudiciume vittoriano e il suo labbro inferiore prominente, questo Pennywise è un trionfo di make-up, design e molte altre cose” (Empire).

L’accento svedese e il maniacale studio posturale, i luridi merletti barocchi e il costante filo pendulo di saliva, gli incisivi da coniglio e un aspetto androgino che lo assimilano al clima adolescenziale della pellicola (laddove Tim Curry era un It più maturo e meno perturbante) fanno di questo villain il vero punto di forza del film di Muschietti, peraltro molto abile nel dosarne le apparizioni.

L’interpretazione di Bill Skarsgard è stata a tal punto efficace da destare le polemiche da parte dell’ associazione dei clown professionisti americani preoccupati che il nuovo Pennywise potesse terrorizzare a tal punto i bambini da creare loro un considerevole danno d’immagine.

La replica di Muschietti: “ Credo che in un certo qual modo i clown stiano traendo beneficio dalla pubblicità. La paura dei clown è rinata ma sai, ci sono i clown cattivi e quelli buoni quindi dovrebbero capire che genere di pagliaccio vogliono essere, no? Voglio dire che se magari mettono paura ai bambini è proprio perché sono spaventosi.

 

CONCLUSIONI

La barchetta che fila in linea retta quasi telecomandata da un malevolo destino, il clown ghignante che impugna palloncini liberando odore di pop-corn che nasconde quello di putrefazione delle fogne di Derry, il bambino in k-way giallo, l’inalatore per asmatici che diviene acido muriatico, il giuramento coi cocci di vetro e la battaglia a sassate, tutti questi elementi sono andati  comporre negli anni la mitologia di It ed ora convergono nel film di Muschietti creando non solo curiosità ma un vero e proprio “evento” come non accadeva dai tempi della Trilogia del Signore degli Anelli.

Oltre che per la riscoperta del romanzo kinghiano, che dopo aver sedotto milioni di persone ora potrà esercitare il suo fascino sui più giovani, It 2017 ha avuto il merito per gli addetti ai lavori di salvare non solo il destino dell’horror ma quello del cinema in generale visto che (negli Usa) l’Estate 2017 ha visto un calo d’affluenza nelle sale pari al 10 %.

Eppure la sua “adolescenzialità”,  come taglio narrativo e pubblico di riferimento, è anche il suo limite visti i tanti difetti riscontrati da chi il libro lo conosce e non aveva neanche apprezzato la mini-serie anni Novanta; d’altronde in ogni film di genere in cui il villain spopola è facile rinvenire falle nella sceneggiatura o imbarazzanti riduzioni di complessità.

Germano Innocenti