A questo punto devo ammetterlo, purtroppo. Non è una cosa di cui vada fiero, assolutamente, ma... non sono il tipo da fare volontariato.
L'ho fatto, ovviamente. Se sei un giovane italiano, specialmente non laureato, il volontariato è il tuo unico sentiero percorribile per giungere nella fantasmagorica terra del "mondo del lavoro". Ma non mi sono mai trovato del tutto a mio agio, in nessun tipo di compito e in quasi nessun tipo di contesto.
Problema mio, ovviamente. Questo mi porta però a guardare con più ammirazione chi il volontariato lo fa per davvero, chi decide di spendere la propria vita per aiutare gli altri non tanto nel modo che preferisce, ma in quello più efficace.
Come Gabriele Galli, giovane cuneese che tra qualche giorno partirà per lo Zambia. Con lui, ho fatto recentemente questa chiacchierata.
- Buongiorno Gabriele. Partiamo dall’inizio: come e perché hai maturato l’idea di affrontare un’esperienza di servizio civile all’estero (e di questo tipo)?
La decisione di partire è maturata qualche anno fa dopo aver sentito numerose esperienze di amici che avevano vissuto periodi più o meno lunghi all’estero, chi in paesi africani, chi in sud America e chi invece in territori dell’est Europa, tutte persone sempre illuminate dalle esperienze vissute in queste terre di missione.
Appena ho finito l’università, in aprile, ho colto l’attimo e ho fatto domanda per il progetto dei caschi bianchi, il quale mi dava la possibilità di mettermi in gioco dando tutto me stesso per un intero anno, sentivo il bisogno di allontanarmi dalle comodità quotidiane che ci fanno sentire tanto bene quanto scomodi rispetto all’aria che si respira in tante parti del mondo e di avvicinarmi a qualcosa di più concreto e necessario.
- Andrai in Zambia. Hai scelto tu il progetto lì destinato, oppure sei stato assegnato a qualcosa di già esistente? Nel secondo caso, come vedi questa destinazione?
Il progetto che seguirò in Zambia è un progetto che esiste da molto tempo ed è uno dei diversi progetti che la Comunità Papa Giovanni XXIII porta avanti nel paese di ‘Ndola da diversi anni. La mia decisione nella scelta della destinazione è stata guidata principalmente dal tipo di progetto che mi interessava, ovvero la realtà dei minori di strada, a cui ho fatto domanda e a cui poi sono stato assegnato. Gli altri progetti presenti a ‘Ndola che seguiranno i ragazzi che verranno con me in Zambia riguardano la malnutrizione infantile e la disabilità.
- Hai idea di come sarà, nei fatti, la tua quotidianità zambese?
Non ho idea di come potrà essere la quotidianità di ‘Ndola, ho deciso fin dall’inizio di non farmi aspettative troppo precise per riuscire ad aprirmi ad accogliere ogni tipo di proposta ed eventualità. So solo che la spinta a partire è molto forte e che quando sarò lì, come ci è stato raccomandato più volte, dovrò entrare il più possibile in punta di piedi, con cautela, così da avvicinarmi alle vite che incontrerò e alle loro storie a piccole dosi, per comprendere una quotidianità molto diversa dalla nostra, in tantissimi aspetti.
- Stai terminando il tuo periodo di formazione con la Comunità Papa Giovanni. Per che tipo di situazioni vi state preparando?
La formazione in sé più che prepararci per ciò che vivremo in Zambia, o in qualsiasi altra parte del mondo, ci ha dato gli strumenti per comprendere a pieno la figura del casco bianco, il modo in cui agisce che parte da un’ottica nonviolenta, di pace, che sta alla base di ogni sua azione. Ci ha reso più consapevoli della nostra figura, delle nostre motivazioni di partenza, più coscienti rispetto a ciò che sarà il nostro modo di agire, di osservare e di metterci in gioco.
Saremo immersi 24 ore su 24 in ciò che faremo e questo non sarà semplice da gestire, ma nell’ottica della condivisione e del confronto tutto potrà essere vissuto con meno fatica, pronti a stare, a esserci, in ogni momento.
- Immagino tu non veda l’ora di partire. Che cosa credi ti lascerà questa tua esperienza, una volta conclusa?
Questa è sempre la domanda più difficile, ci è stata ripetuta da molte persone più volte in quest’ultimo mese e la risposta è sempre stata diversa e probabilmente cambierà ancora più e più volte, in base alla consapevolezza acquisita mano a mano, col passar del tempo. Al momento credo che quest’esperienza mi porterà una capacità nuova di vedere ciò che mi circonda, mi farà faticare ancor di più a vivere una routine veloce, piena di cose, di parole, che forse non sentirò più il bisogno di avere o di vivere allo stesso modo.
Andrea, un ragazzo disabile, qualche giorno fa per augurare una buona partenza a me e ad altri caschi bianchi ci ha detto: “Spero che tornando possiate avere lo stesso odore delle pecore”. Spero di tornare con l’odore di tutto ciò che ho vissuto, delle vite incontrare, ricco di incontri e di esperienze, che si possa sentire e vedere, un odore contagioso e che respirato dona vita. Spero di tornare capace di assumermi la responsabilità di ogni singolo gesto, di ogni mia parola, per far sì che qualcosa cambi in tutto questo assurdo mondo.