- 02 giugno 2018, 10:46

Pittura da mangiare: la fame impossibile di Chaim Soutine (ultima parte)

“Soutine disse che voleva condensare l’atmosfera di Parigi in una carcassa di bue”.

“Soutine disse che voleva condensare l’atmosfera di Parigi in una carcassa di bue”.

Iniziare a mangiare la bistecca al sangue con contorno di patate che il cameriere/autista ci ha servito insieme a un bicchiere di vino rosso in calice smerigliato mentre il padrone di casa, vestito come Oscar Wilde, ci illustra il dipinto “Bue e testa di vitello” del suo (e nostro) idolo Soutine, sorridendo come il bambino più vecchio del mondo.

“Suppongo sia inutile chiederle, come per le altre tele, se si tratti d’un originale, vero?”

“Per la maggior parte degli intellettuali occidentali è impossibile l’abbandono. Dovete sempre sapere con chi siete o dove siete, ora poi che la tecnologia ha distrutto scientificamente l’esperienza di perdersi, è bandita la possibilità di contemplare qualcosa. Il misticismo si fonda sull’oblio ma voi ormai vi prestate all’oblio solo nella malattia. Ecco perché la migliore arte dalla seconda parte del Novecento ad oggi è patologica.”

“Si, ma qui siamo negli anni Venti o sbaglio?”

“1923, per la precisione. Chaim aveva trasformato in atelier un ex magazzino delle edizioni Fayard ed è lì che ha realizzato la maggior parte delle nature morte raffiguranti carcasse di animali. Finalmente aveva spazio per dipingere così aumentò le dimensioni dei suoi quadri. Siamo lontani dai tempi in cui era talmente povero da dover affittare un pollo per dipingerlo.”

“Questa non è più arte”, esclamare fissando la testa di vitello e l’anatomia scomposta del bue.

“Non ha più fame?”

“Le sembrerà strano ma mi è passato l’appetito.”

“Gli studi di Chaim sulle carcasse di animali sono una ferita nella coscienza collettiva. Ma bisogna andare oltre la carne e la sua decomposizione. Bisogna soffermarsi sul sangue che, come il colore, è eterno.”

Bere il vino allontanando il piatto con l’osso di bistecca semispolpato e fissare negli occhi il nostro anfitrione.

“Lei ha accennato a tre atti di rivolta in Soutine ma me ne ha illustrati soltanto due. Quale fu l’ultimo?”

“Gravemente malato allo stomaco, il cibo ha sempre rappresentato per lui qualcosa di estremamente piacevole ma anche una fonte certa di dolore. Eppure questo non può prescindere dalle sue origini semite e dalle relative prescrizioni dietetiche kasher. Per gli ebrei l’animale deve essere abbattuto con una lama perfettamente affilata e il più rapidamente possibile: ogni superflua sofferenza è considerata peccato. Così a tale funzione è preposto lo “shokhet”, uomo di altissimo rango e cultura, secondo socialmente parlando solo al rabbino e al cantor. Egli, dopo aver ucciso l’animale, lo lava e priva del suo sangue.”

“E dove sarebbe l’atto di rivolta di Soutine?”

“Guardi quel quadro. Cosa vede?”

“Carne macellata e una testa di vitello.”

“No…cosa vede veramente? Si dimentichi per un attimo della razionalità positivista, si dimentichi di essere occidentale e scivoli nel misticismo. Abbandonarsi a un quadro è farsi guardare da lui. Un quadro è come un Cristo di legno in una chiesa, ovunque tu vada lui ti fissa negli occhi.”

“Vedo il sangue e i primi segni verdi di putrefazione.”

“No, lei non li vede. Li sente. Questa non è più arte figurativa né simbolismo, questa è la sensazione prima della parola, il suono prima della musica. Siamo nell’universalità del dolore e lei percepisce il sangue perché lo riconosce come suo.”

“Mi ricorda il perturbante in Freud.”

“Certamente. L’inquietudine che avverte deriva da un trauma rimosso ma mai veramente assorbito. Lei è penetrato dai colori di Chaim ed essere penetrati, come diceva Pasolini, è sensazione cosmica.”

“Ci stiamo addentrando in territori oscuri.”

“È lo “Shtetl”, il villaggio ebraico denso di pericoli e inibizioni che Chaim ha dipinto per tutta la vita. Non erano Céret o Cagnes i soggetti sagomati dal suo pennello ma questo borgo mistico presente nel Talmud che lui ha dissacrato con la propria pittura senza mai liberarsene completamente.”

“Il caos…”

“Certamente. Ma un caos inteso come aspirazione a un ordine interiore. Tutti i paesaggi di Chaim hanno una struttura ellittica e, a differenza delle pennellate corsive di Van Gogh o alla claustrofobia del cubismo, fluiscono in senso circolare verso un’armonia profonda. Solo apparentemente le case e gli alberi sembrano gettati sulla tela in modo disordinato, in realtà il bielorusso ha voluto esprimere in modo sismico il perpetuo movimento del mondo che ci abbraccia tutti attraverso i colori, deponendoci sulle rive della morte come…come…”

“…come una carcassa di bue.”

Silenzio. Battito di mani. Una tela, coperta da un drappo azzurro, fa il suo ingresso insieme a un vassoio di liquori. Il drappo cade come il velo d’una statua o il peplo d’una vergine.

“Il bue squartato di Soutine”, declama il padrone di casa con la voce rotta dall’emozione.

Alzarsi e strusciare le cornee sulle placche di rosso digradanti nel lucido porpora e nei violetti cupi della morte in divenire, sul bianco periferico del grasso che alona la carcassa come il balenio d’una daga, senza fiato per il tessuto pittorico che diviene carne in un gioco d’alternanza fra realtà e finzione che anticipa Bacon e il dripping di Pollock.

“Com’è noto Chaim s’ispirò al “Bue macellato” di Rembrandt del 1655 che aveva più volte ammirato al Louvre. Da molti considerato un’opera minore o un soggetto di genere, venne poi rivalutato oltre che da Soutine anche da Delacroix, Daumier e Chagall. Benesch lo definì “un vero e proprio portagioie”. Gli aneddoti sulla realizzazione di quest’opera da parte di Chaim sono infiniti come le interpretazioni che se ne possono dare, visto che lui parlava pochissimo e non scriveva mai. Assiduo frequentatore dei mattatoi de La Villette, uno dei quartieri più malfamati di Parigi, Chaim si portò in atelier la famosa carcassa ed iniziò a dipingerla tirando secchiate di sangue fresco sulla carne affinchè restasse lucente mentre Paulette Jourdaine, la sua assistente, scacciava le mosche. Alla fine intervenne il dipartimento d’igiene. Qualcuno sostiene che a quel punto lui iniziò ad iniettare formalina nel quarto di bue per tenere a bada l’odore nauseante che aveva molestato i vicini mentre la versione più romantica racconta di Chaim che convince gli ispettori a lasciarlo lavorare perché l’arte è più importante dell’igiene.”

“Mi ricorda un altro artista.”

“Chi?”

“Shelley, il poeta. Si faceva legare all’albero maestro delle navi durante i temporali per guardare i colori della burrasca e poi descriverli nelle sue liriche.”

“Non è morto in mare?”

“Coerente fino in fondo.”

“A fondo semmai. Comunque la grandezza del bue squartato di Chaim sta nell’eliminazione di qualsiasi ambientazione descrittiva. Nell’opera di Rembrandt la carcassa è posta (com’era d’uso nel barocco seicentesco) in diagonale per comunicare un certo dinamismo e s’intravede una figura femminile sullo sfondo. Chaim elimina tutto questo. Il primo piano è la carne e la carne riempie il mondo. Non possiamo sottrarci al confronto con la materia putrescibile. Solo un altro artista ha avuto il coraggio di superare questo limite.”

“Il già citato Bacon?”

“No, Alberto Burri. Tutta la sua arte è un trompe l’oeil alla rovescia. Non più l’arte che imita la vita ma la vita che imita l’arte.”

Fissare il nostro anfitrione dopo la terza coppa di cognac.

“Temo di dover andare.”

“Si. Concludo brevemente. L’atto di rivolta definitivo di Chaim Soutine fu quello di dipingere il sangue col sangue, gesto in aperta contraddizione coi rituali di abbattimento ebraici. Prima divenne pittore figurativo contro la precettistica giudaica che vietava la rappresentazione e poi rese immortale ciò che per il popolo eletto va lavato via dalla carne sacrificale. Tutto in lui fu un gesto di rifiuto del Talmud, un’anticreazione che lo portava a distruggere le tele che non lo convincevano fino in fondo.

Da ebreo errante esiliò il verbo sulla tela e lo rese oscuro presagio. Morì di cancro allo stomaco, sconosciuto ai più ma ammirato dai grandi. Se essere maledetti significa non riuscire a stringere ciò che si ha di fronte, a  non mangiare anche se si ha fame e a non poter amare nonostante il disperato bisogno d’amore, allora egli fu maledetto ed io porto la sua stessa maledizione nel sangue.”

“Non le chiederò qual è il suo legame con Soutine anche se ho capito che è un legame di sangue (e sul sangue) né insisterò sull’originalità dei dipinti che mi ha mostrato, ma restituirò al nostro Chaim la fame che merita, come promesso.”

Accettare di nuovo l’imposizione della benda da parte dello chauffeur concludendo che in fin dei conti, nell’attuale società, l’esperienza dell’oblio sia possibile soltanto ad occhi chiusi.

 

Germano Innocenti