Risvegliarsi sulla china discendente delle vacanze come un surfista che s’ingobbi per chiudere degnamente l’onda e prepararsi per una gita in gommone a Capo Teulada, nel margine meridionale dell’ “isola senza fine”; le labbra rifinite dalla pizza al carbone vegetale gustata la sera precedente al “Levitum” (locale minimal con seminali ambizioni di franchising) ci ricordano di quella alla curcuma decorata da stringhe di muggine simili ad ambra e sapide come un derby perso al novantesimo.
Dopo un parcheggio “portuale” che rinfocola la nostra ansia da multe estive, prendere posto sul gommone gremito di coppie e pilotato da un campano naturalizzato sardo ma con un passato da carabiniere a Roma (dall’esotico nome di Remo), quindi navigare al largo per raggiungere cale irraggiungibili dalla terraferma.
“La zona che vedete è una base militare Nato. Si tratta complessivamente di 35000 ettari di servitù che includono il poligono di Teulada. Da un paio d’anni i militari se ne sono andati e il territorio è tornato comunale. Purtroppo …”
Il passato gallonato del fante Remo carica sul “purtroppo” mentre gli ottantiani occhiali da sole da Don Johnson a riposo nascondono occhi lucidi come canne di cobalto.
“Perché?”
“Perché quando c’erano loro era tutto in ordine.”
“Quando c’era lui …”
“Adesso è la rovina.”
“E la storia dei proiettili all’uranio e delle bombe inesplose?” urlare sopra il rombo del motore.
“Fandonie”, sentenzia Remo, autoreferenziale come tutti gli operatori turistici, “lo scorso anno io e mia moglie abbiamo fatto il bagno qui il 24 Dicembre. Erano ventitre gradi. Certo non è così ogni anno però …”
Tuffarsi in acqua (a sei metri di profondità si vede ancora il fondale) e gioire del sole che filtra nell’acqua smeraldina accettando per una volta l’omertà balneare e il gusto dell’oblio che inuma i segreti di stato insieme alle mine inesplose nell’arena più sottile che esiste, quella dell’indifferenza. E della bellezza.
“Alle vostre spalle”, chiosa Remo, grattando il fantasma benemerito del pizzo, “c’è l’isola rossa, un ammasso di rocce granitiche con ancora i resti d’uno stabilimento per lavorare il tonno risalenti ai primi del Novecento.”
Osservarlo estrarre un pezzo di pane da una borsa.
“Un imprenditore l’ha acquistata per costruirci sopra un ristorante di lusso ma gli hanno bloccato i lavori tre volte.”
“L’hanno silurato …”
Osservare l’imperturbabile sorriso di Remo vacillare, per poi subito riprendersi iniziando a pasturare il male di molliche di pane raffermo.
“Se osservate bene potete notare che al centro dell’isola c’è una spaccatura che la attraversa tutta fino a sbucare dal lato opposto: probabilmente il risultato d’un antico sisma.” Lasciare vagolare lo sguardo sul diamante tagliato delle rocce, un’ideale gola d’agguato alla John Ford.
“Nessuno l’ha mai attraversata?”
“Una volta un tedesco ci ha provato. Era in muta da sub. Quando ne è uscito non c’era una sola parte del suo corpo che non sanguinasse.”
“E tu Remo?”
“Io non sono tedesco. Sono nato a Napoli.”
Risate generali.
D’improvviso il mare si anima di puntini di sospensione e virgole: minuti pesciolini (occhiate) iniziano a beccare il pane in corsive accelerazioni che eccitano i bambini. Ci tuffiamo in acqua per fare amicizia, solleticati dalle ittiche giravolte.
“Sono commestibili Remo?”
“Certo. Perché pensi che gli dia da mangiare? A fine stagione vengo qui e ne pesco un bel po’ così mi ricambiano la cortesia in una grigliata.”
“No mamma!!”, pigola un girino biondo in braccioli mostrando le prime tracce di coscienza vegana.
Rimontiamo sul gommone e Remo accelera tagliando la scia d’un’altra imbarcazione mentre la rifrazione delle onde fa l’arcobaleno controluce. A motore spento raggiungiamo una grotta azzurra che al di sotto d’un’isola rossastra sembra la bocca d’un ciclope affamato.
“Questa è l’isola della vacca, il margine estremo della Sardegna. A duecentoventi chilometri c’è la Tunisia. Difatti anche qui avvengono degli sbarchi ogni tanto ma niente di paragonabile alla Sicilia.”
“E quello?” chiedere indicando una macchia nera all’orizzonte.
“Quello è lo scoglio del toro. È disabitato, non c’è niente là sopra.”
Apprenderemo poi che “l’sola del toro”, il vero margine estremo della Sardegna, è un isolotto vulcanico da alcuni considerato il luogo più antico della regione, con rarità faunistiche quali una lucertola unica al mondo e il falco della regina, prossimo allo scoglio del vitello (traforato di proiettili) e allo scoglio del pastore (completamente distrutto dai proiettili): praticamente un intero armento bovino il cui mandriano è stato ucciso. A dimostrazione che l’essere umano è l’unico animale che si assassina per sport.
Raggiunta Cala Zafferano (così denominata per il colorito rosé del lido), calare l’ancora e sostare con l’acqua alle ginocchia, un’acqua chiara come quella di Narciso, osservando le dune cinte di ginepri e macchia mediterranea con sullo sfondo la torre scamozzata di Porto Scudo che sembra sagomata dal secchiello del bambino più grande del mondo.
“Avete mai sentito parlare di Ovidio Marras?” chiede Remo servendo frutta fresca e prosecco coi piedi ben piantati nell’arena.
“No.”
“È un contadino e pastore che vive non lontano da qui, a Capo Malfatano in zona Tuerredda. Qualche anno fa una cordata di imprese e banche con dietro nomi importanti come Toti, Caltagirone, Benetton e Marcegaglia …”
“La presidente di Confindustria?”
“In carne e pos. Insomma volevano costruire un complesso residenziale di lusso in questa parte di Sardegna, 910 mila metri quadrati di cemento a cinque stelle (quelle alberghiere non politiche). Hanno iniziato distruggendo cento olivastri e ostruendo il passaggio che Ovidio e il padre da sempre usano per il bestiame così lui ha fatto causa alla cordata e nel 2016 la Cassazione gli ha dato ragione.”
“Non ci posso credere.”
“Gli hanno offerto milioni di euro ma lui ha detto: “ non so neanche dove sia la Costa Smeralda, voglio continuare a vivere in questa terra, voglio che la lascino così come l’abbiamo conosciuta.” Cos’è, hai un moscerino nell’occhio? Eppure siamo fermi.”
Sorridere a Remo che senza accorgersene ha guadagnato la nostra stima, stima raddoppiata da una seconda bottiglia aperta durante il viaggio di ritorno (e senza katana, con buona pace di Flavio Briatore), accompagnata da un assortimento di pizza da terzo tempo rugbistico.
Prima di salutarci con un abbraccio, incassando il compenso al nero più meritato della storia, Remo esclama: “Sai qual è stata la frase che mi ha detto il vecchio Ovidio quando gli ho chiesto: “ma chi te l’ha fatto fare a rifiutare tutti quei soldi?”
“Spara”.
“Questo posto è di tutti e io lo dovevo difendere,” ha detto.
La sera, dopo una doccia battesimale, Cagliari ci accoglie come un elegantissimo bordello e nella Babele di lingue e dialetti a quaranta gradi centigradi l’insegna del Fanà ci conquista per la sua essenzialità tutta sviluppata in longitudine.
Un vino bianco fruttato della casa e l’ormai consueto pane bruschettato all’olio d’oliva introducono una cena che potremmo benissimo montare alla rovescia: dalla perfezione della frittura di pesce alla sezione aurea delle linguine all’astice (apice) passando attraverso dei dessert d’inaudita bellezza oltre che bontà, ma il punto di forza del Fanà sono di certo gli antipasti.
Burrida cagliaritana, o gattuccio di mare, crostini di rana pescatrice, tonno di Carloforte a strati, un gamberone rivestito di pane con alghe fritte e assaggi di razza con cipolle rosse.
L’inevitabile mirto al bancone con conto più che onesto ci rivelano una proprietaria distrutta psicologicamente dalla gratuita barbarie di tripadvisor.
“Non si preoccupi”, consolarla con espressione badiale, “i social hanno gli haters, tripadvisor ha gli (h)eaters”.
Andarsene, incompresi, come tutto il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo (di spalle), ripensando a una regione che difende il suo Paradiso Amaro dal lusso e dalla speculazione edilizia, dalla colonizzazione culturale e dal mito continentale del capitale e che con tutte le sue contraddizioni (tipo questo Cuba Libre che sa solo di stronzissimo limone), ha più senso d’appartenenza dello Stato cui (non) appartiene.
Onore al merito a Ovidio Marras e a Chiara Vigo e soprattutto a Grazia Deledda che una leggenda popolare ritrae in procinto di ricevere l’araldo del Nobel sulla soglia di casa con le mani sporche di cipolla e sugo di pomodoro.