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Attualità | 07 aprile 2020, 12:20

Iacopo Conte, il medico anestesista che ha tagliato i suoi dreads e ha preso servizio a Verduno: "C'era bisogno di me, è stato un atto di responsabilità"

Fin dalle prime notizie che arrivavano dalla Cina, l'anestesista 47enne aveva capito che sarebbe stato necessario, per affrontare il virus e le sue conseguenze, concentrare tutte le risorse sanitarie disponibili

Iacopo Conte, il medico anestesista che ha tagliato i suoi dreads e ha preso servizio a Verduno: "C'era bisogno di me, è stato un atto di responsabilità"

Iacopo Conte è un medico anestesista di 47 anni. Originario di Sant’Albano Stura, vive ormai da anni sulle colline dell’Alta Langa, a Cortemilia, con la sua famiglia, in una cascina tra noccioleti e piante da frutto. Una sorta di nido, di rifugio, dove vivere di fatica e di affetti. Questo rifugio, il dottor Conte lo ha lasciato i giorni scorsi per prendere servizio nel nuovo Covid Hospital di Verduno.

Una scelta scontata per come la racconta, frutto di una profonda scelta etica sulle cui fondamenta si basa la professione medica.

Medico di libera professione, Conte ha lasciato l’ASL di Alessandria nel 2010 in aperta polemica con alcune prassi della Sanità: “Mi cercarono fortissimamente e mi piaceva l’idea di lavorare finalmente con chi aveva solo interesse a valorizzarmi invece di affossarmi e sono passato al Privato Convenzionato, dove chi gestisce i soldi non può permettersi di affossare servizi che funzionano per giochi di potere come avviene invece, a volte, nel pubblico”.

Nonostante questa posizione, agli inizi dell'epidemia, quando ancora in Italia se ne parlava appena, uno dei primi appelli del dottor Conte è stato di "precettare" tutto il personale dipendente o in libera professione della sanità privata per potenziare il pubblico.

Consapevole della necessità di fare squadra a tutti i livelli, che lo ha spinto a rispondere alla chiamata alle armi dell’ospedale di Verduno: "Mi sono interessato abbastanza precocemente della vicenda SarsCov2 documentandomi abbondantemente sui media internazionali, cercando il più possibile di capire cosa stesse accadendo in Cina, e l'idea di 60 milioni di persone chiuse in quarantena, di un lockdown totale, dello stop di pressoché tutte le industrie cinesi della provincia dell'Hubei, ma soprattutto l'immediata concentrazione da parte del governo cinese di tutte le risorse sanitarie arruolabili nella nazione, tecnologiche ed umane, nella Regione di esplosione dell'epidemia, mi fecero rendere conto che eravamo di fronte ad un'emergenza sanitaria di dimensioni apocalittiche, che richiedeva interventi immediati e drastici per il suo contenimento e per la gestione delle conseguenze. Per spiegarmi, allo scoppio dell’epidemia, la Cina ha chiuso la zona di focolaio ed in questa ha convogliato tutti i mezzi disponibili per la guerra sanitaria (tant'è che tutti abbiamo visto gli ospedali nascere come funghi a Wuhan. Da subito, per le caratteristiche dell'epidemia, era chiaro che dovunque fosse arrivato, ci sarebbe voluta la delimitazione più stretta possibile dell'area di contagio insieme alla risposta più organizzata ed energica possibile del sistema sanitario, cosa possibile solamente unendo immediatamente tutte le risorse sanitarie pubbliche e private sotto la stessa regia, cosa che, purtroppo, non è successa subito... anzi, ancora per troppo tempo le due realtà hanno viaggiato su binari separati, ad eccezione di quelle proprietà che, resesi conto del momento storico, si sono messe al servizio del SSN”.

Un appello lanciato subito, quando ancora i più, anche a livello medico e istituzionale, pensavano a una brutta influenza, una serie di messaggi lanciati ad amici e parenti in chat, sui social, al telefono, da subito il dottor Conte ha iniziato a spingere verso il rispetto delle regole dell’isolamento, dei comportamenti corretti, entrando spesso in polemica con chi, purtroppo ancora oggi, ritiene la pandemia di Covid-19 poco più di una montatura mediatica.

A far scattare il campanello d’allarme nella mente del dottor Conte, tanto da meritargli il triste appellativo di contemporanea Cassandra, è stata “l'estrema contagiosità del virus SARSCOV2, insieme alla sua spiccata capacità di "passare inosservato", grazie ai quadri silenti ma contagiosi; la possibilità statisticamente significativa che la malattia potesse portare a quadri clinici che necessitassero di supporti intensivi, quadri peraltro subdoli fino all'ultimo, con persone che da una tossetta insistente passavano al tubo in gola nell'arco di poco tempo (minuti o ore); la difficoltà da parte degli scienziati ad identificare quelle red flags che permetterebbero di capire prima chi sono i soggetti a rischio; le sue caratteristiche genetiche che ne fanno un virus per cui elaborare un vaccino efficace e con un'immunità stabile nel tempo è veramente dura”.

Un virus che ha un potenziale molto maggiore rispetto ad altre degli ultimi anni proprio per il suo agire subdolamente, infettando grandi numeri di persone sebbene in molti casi in modo asintomatico: “A differenza che nella SARS e nella MERS, dove il paziente diveniva contagioso solamente quando aveva il quadro clinico, che spessissimo era un quadro clinico grave, che portava ad ospedalizzazione precoce, e quindi isolamento precoce del paziente, il SARSCOV2 è capace di contagiare anche prima dell'insorgenza del quadro clinico o proprio in assenza di quadro clinico, rendendo impossibile identificare tutti gli infetti potenzialmente contagiosi, e quindi impossibile da controllare con il normale way of living moderno”.

La rapidità di intervento non è comunque stata abbastanza veloce: “Il mio concetto di "correre subito ai ripari", ed è una opinione mia strettamente personale, era il modello cinese, cioè dal famoso "venerdì di Codogno": blocco totale ed immediato di tutta la zona focolaio e di tutte le attività della zona, blocco di tutti i trasferimenti in e out delle persone della zona, supporto esterno da parte del resto della nazione, con concentrazione di risorse umane sanitarie specifiche da subito nella zona focolaio per gestire al meglio senza mandare in crisi il sistema sanitario, le richieste di assistenza sanitaria dei pazienti contagiati nel focolaio, magari costruendo le infrastrutture provvisorie che ora stiamo vedendo nascere in varie parti d’Italia. Blocco di tutte le attività potenzialmente fonte di diffusione nelle zone attorno al focolaio in lock-down. Ovviamente con una sanità nazionale gestita dai governatori regionali e senza la possibilità del governo centrale di imporre da subito paletti ben definiti, siamo arrivati alla situazione italiana, dove dal focolaio lombardo veneto, abbiamo parcellizzato l'epidemia coinvolgendo via via le varie sanità regionali, dividendo, secondo la mia opinione, forza, risorse e coordinazione nella risposta”.

Tutta una serie di elementi che ha spinto Iacopo Conte a lasciare il suo isolamento sulle colline di Alta Langa e rispondere alla chiamata per il personale del Covid Hospital istituito nell’ospedale di Verduno, aperto in corsa la scorsa settimana per far fronte all’emergenza sanitaria.

Una scelta che fa sì che chiunque stia lavorando in questo momento stia rischiando in prima persona. Quali sono gli elementi che hanno avuto maggior peso in questa scelta? “La consapevolezza, secondo il mio pensiero, che la cosa fosse sfuggita di mano, la fatica ed il dolore di colleghe e colleghi. Il fatto che ora c'è bisogno di gente che sappia fare quello che so fare io, l'anestesista rianimatore, e la convinzione che stiamo assistendo alla Storia, quella che si studierà sui libri, e che ognuno di noi ha la propria responsabilità individuale su cosa si scriverà in questa storia...volevo che le due righe che tocca scrivere a me, fossero degne del momento”.

C’è un aneddoto che particolarmente colpisce nella scelta del dottor Conte ed è legata a una promessa fatta a vent’anni, il giorno della laurea.

Nel suo anticonformismo, convinto che quello del medico sia un mestiere da basare unicamente su competenza e umanità, aveva scelto di non tagliarsi mai i capelli, arrivando ad avere una lunghissima chioma di “dreadlocks” che gli era valsa il soprannome di “anesterasta”.

I giorni scorsi, prima di prendere servizio a Verduno, il taglio dei capelli: “Dopo la discussione della tesi non mi riconoscevo nell'archetipo del medico che questa società dell'apparire aveva reso normale, i miei capelli non erano un simbolo di libertà; al contrario, come scritto nella Bibbia, non tagliavo i capelli come segno di schiavitù, perché il mondo in cui vivevo era pieno di vincoli ed ipocrisie, non badava alla sostanza, era una torre di Babele in cui ognuno parlava la sua lingua per curare i suoi interessi. Io sognavo una sanità che si occupasse solamente di curare, non di carriere, clientelismo, lobbies, una sanità che c'è. Il Covid 19 sta scompaginando, ma non ci riuscirà del tutto, questa torre di Babele, l'umanità è tutta costretta a parlare la stessa lingua, quella della paura, ma anche della solidarietà. Babilonia sta cadendo e i miei capelli non avevano più senso di essere e poi c'è l'aspetto pratico, sarebbe stato difficilissimo gestirli sotto i dpi che mi accingevo ad indossare per fare il mio lavoro. Se l'unica cosa che mi toglierà questo virus saranno stati i miei capelli, mi sembra un prezzo ragionevole".

Agata Pagani

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