“Good taste is the death of art”
(T.Capote)
“Non c’è festa senza spargimento di sangue”.
(Eb 9,22)
In una casa diroccata, sepolta in un bosco senza tempo, con l’intonaco che cade a pezzi e una sporcizia seminale, un uomo mascherato dal suggestivo nome di “God killing himself” si suicida lentamente con un rasoio; dai suoi pietosi resti scaturirà una donna ugualmente mascherata (“Mother Earth”) che dopo averne masturbato il cadavere e aver cosparso il proprio sesso col seme, partorirà the “Son of Earth”, un macilento essere afflitto da tremori epilettici.
I due, legati da un grezzo cordone ombelicale, percorreranno delle inospitali lande rocciose fino ad imbattersi in una confraternita chiamata “The teather of material” che dopo averli osservati inizierà a torturarli con rituale lentezza.
Partorito, anzi “generato” (begotten), dalla mente di Edmund Elias Merhige, noto al grande pubblico per “L’ombra del vampiro”, questo lungometraggio di 72,10 minuti concepito già nel 1984 ma realizzato solo nel 1989 e distribuito nel 1991, è una pellicola priva di dialoghi, in bianco e nero e senza colonna sonora: i suoni assemblati da Evan Alban sono una cacofonia naturalista degna della psichedelica sperimentale dei Pink Floyd, cinguettii e ronzii si affiancano a cicalecci e gorgoglii, battiti cardiaci e vampe di fuoco, solo l’agnizione di Madre Natura con la sua maschera carnevalesca merita qualche accordo di tastiera ma per tutta la durata di “Begotten” avvertiremo solo la voce soffocata del figlio della terra, incapace di articolare parole e affetto dallo stesso tremore paterno.
Apprezzato da Aronofsky che ne ha tratto ispirazione per il suo “Mother” e definito da Susan Sontag “un capolavoro di splatter metafisico”, quest’allucinato lungometraggio (ripreso in quattro terzi) che ricorda il Lynch di “Eraserhead” o l’espressionismo di Murnau è più simile alla videoarte o al cubismo analitico che al cinema: come se Vladimiro e Estragone di Beckett fossero violentati e uccisi mentre aspettano God(ot).
Il procedimento usato da Merhige (da lui stesso definito “rephotography”) ha dato risalto assoluto ai bianchi, eliminato i grigi e i mezzi toni e minimizzato i neri col risultato d’un’immagine ipersatura e esposta che vaiola le inquadrature rendendole a tratti simili a una tela di Pollock o a un vetrino da laboratorio osservato al microscopio.
L’Istituto Luce incontra la clip di “The Ring” e i documentari dei campi di sterminio, il tutto proiettato sul retro di una moneta antica.
Ci sono voluti otto mesi di post-produzione (10 ore in media per filtrare ogni singolo minuto dei 72 finali) per generare questo ibrido di visionarietà embrionale, primitivo e solenne, sporco ed estremo, il cui ermetismo ha ingolosito i cinefili di dovunque alla ricerca delle molteplici chiavi di lettura, da quella ambientalista che si evince in modo abbastanza chiaro nel finale a quella evangelica, ma quello che rende ancora oggi “Begotten” un’opera grandiosa, nel senso deviato del termine, è la sua unicità.
Ogni avanguardia (che in quanto tale è storica perché dialettica) reinterpreta il passato in chiave modernista ma il film di Merhige non scende a compromessi sfuggendo sia l’allegoria (tranne nel finale) che il simbolismo appellandosi a un primitivismo lontano dal figurativo e talmente radicato nella sensazione da ricordare il linguaggio degli incubi.
“Like a flame burning away the darkness life is a flesh on bone convulsing above the ground”, si legge all’inizio della pellicola ed è questa la prima traccia che lega l’immaginario del regista statunitense al teatro della crudeltà di Artaud, geniale drammaturgo francese che ha rivoluzionato il pensiero teatrologico nella prima parte del Novecento: “il teatro della crudeltà espelle Dio dalla scena” scriveva Derrida commentando gli scritti di Artaud nei quali la parole smetteva di avere un ruolo centrale e l’autore perdeva la funzione teologica di garante del testo. Si esauriva il concetto di rappresentazione e la scena come spazio della “festa” (in cui non v’era più una netta differenza far attori e spettatori) trasformava la scrittura in gesto e la poesia in istante teatrale, unico e irripetibile.
“Language bearers, photographers, diary makers, you with your memory are dead, frozen, lost in a present that never stop passing. Here lives the incarnation of matter. A language forever”, si legge sempre agli inizi di “Begotten” e quest’epigrafe aurorale, quest’epitaffio natale, non fa che abolire l’importanza della scrittura come memoria e conservazione inaugurando un cinema che si fonda sulla materia e sui materiali, come la compagnia di otto elementi guidata dal regista: catafratti, mascherati, sinuosamente lenti e poi brutali, sono loro l’incarnazione d’un’umanità muta e votata a una sacralità pre-dogmatica, barbarica e itinerante, simili a una confraternita oscura o a una compagine di monatti, custodi d’un’empia tradizione fondata sul sacrificio rituale, armati di bastoni e lame che sembrano strumenti musicali, ogni loro gesto violento contiene un patriarcale mistero che confina con l’atto necessario del teatro sacrale di Artaud.
Il fuoco e l’acqua scandiscono i gesti di quest’umanità primitiva che uccide la rappresentazione della Natura per consentirle di rinascere e tortura e smembra suo figlio in quanto generato e non creato (il diluvio successivo a tale atto è un’evidente metafora biblica).
L’estromissione di Dio dalla scena coincide con l’esclusione del Verbo e Mehrige estremizza il discorso sulla crudeltà dapprima inscenando il suicidio di Dio quindi sostituendo alle glossolalie dei malati di mente artaudiani e a quella parola prime delle parole tanto cercata dal drammaturgo francese, il semplice suono della Natura.
L’immagine viene fratturata, desacralizzata, nel gioco dei bianchi sovraesposti la violenza diviene meno evidente ma più morbosa (come l’uso dell’animazione in “where the dead go to die”) e in un momento decisivo della pellicola, incorniciata da una mezzaluna morente, la compagnia si macchia dell’omicidio di Madre Natura come un’allegoria su un vaso etrusco.
La presenza d’una bara poco prima del parto del “Son of Earth” (altresì detto “flesh on bone”) ha una funzione oracolare ma unita ai genitali di madre e figlio, continuamente vessati, ricoperti di calce, martirizzati, simboleggia quella fusione tra erotismo e morte che attraversa tutta la pellicola, scatenando istinti primari senza la mediazione culturale d’un testo né un rassicurante sfondo storico.
“L’arte non è l’imitazione della vita, ma la vita è l’imitazione d’un principio trascendente col quale l’arte ci rimette in comunicazione”, scriveva sempre Artaud e quest’arte tragica così distante da quella borghese di rappresentazione ci trascina in territori distanti dai tabù morali d’ogni epoca, là dove l’eterno coincide con l’osceno e ciò che è sacro precede ciò che è santo.
Nel Barocco il velo non cela ma accentua la nudità così come il bianco e nero di “Begotten” trasporta la violenza fuori dal tempo e dallo spazio ma in quest’operazione anti-narrativa niente è lasciato al caso o all’improvvisazione; le otto ore di post-produzione per ogni minuto filtrato corrispondono cinematograficamente alla meticolosa scansione degli spazi scenici nel teatro della crudeltà, basta osservare i bozzetti preparatori che Artaud stesso disegnò per opere come “I Cenci”.
Nessuna improvvisazione surrealista né empirismo onirico à la Freud.
Accusato di “maledettismo” o di autocompiacimento culturale (la stessa critica rivolta al Lautreamont de “I Canti di Maldoror”) Begotten ha forse l’unica pecca di essere troppo prolisso ma sfugge sia all’ammiccante furbizia delle avanguardie che all’apologia postuma degli amanti del genere e questo perché indefinibile e mostruoso (dal latino “monstrum”: segno divino, prodigio).