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In Breve

| 24 maggio 2020, 17:35

Una notte a mangiare smania e febbre: the Italian Addiction

La copertina sembrava una lastra dentale in bianco e nero e l’autore era quel Matteo Curtoni inserito nell’epocale antologia del ’96 “Gioventù Cannibale”, sorta di manifesto dello splatterpunk italiano.

Una notte a mangiare smania e febbre: the Italian Addiction

Quando il nuovo millennio era ancora un feto e l’ombra degli anni Novanta continuava a proiettarsi su un muro fatto di cocktail di barbiturici, musica industrial e icone suicide, mi capitò tra le mani uno strano libro dall’evocativo titolo: “una notte a mangiare smania e febbre”.

La copertina sembrava una lastra dentale in bianco e nero e l’autore era quel Matteo Curtoni inserito nell’epocale antologia del ’96 “Gioventù Cannibale”, sorta di manifesto dello splatterpunk italiano.

Con una prosa visionaria e potente Matteo raccontava la parabola amorale di Daniele che stanco di una vita passata a dipingere e a raccogliere frammenti di storie da homeless e punkabbestia, decide di superare la soglia del lecito e dopo aver assistito a un omicidio entra a far parte dei “Ragazzi Morti”.

“Sai cos’è un ragazzo morto?”, sussurra l’eroina dark, una Maddalena bellissima e perduta, all’orecchio del Nostro e l’originalità del romanzo si rivela nella sua totale assenza di trascendenza: i ragazzi morti sono dei vampiri metropolitani che non hanno alcun bisogno dell’immortalità per nutrirsi del sangue e della carne delle proprie vittime, a loro basta alcol e anfetamine e dei morsi cromati creati da un’artigiana succube del loro fascino.

La coprotagonista di Daniele è una Milano decadente che somiglia a una periferia dissestata di Ballard i cui scenari sconnessi scivolano sulla cornea del lettore come le lamiere d’un incidente di Cronenberg.

L’idea venne a un Matteo poco più che ventenne (ma già traduttore anglofono per Garzanti e Sonzogno) frugando fra gli annunci di una rivista americana specializzata in tatuaggi e body modification dove un tale richiedeva una protesi con dei canini di metallo; da quell’illuminazione nacque un racconto ad una voce (Maddalena) che si classificò quarto su una rivista on line quindi, dopo aver raggiunto il primo posto su un altro concorso (sull’allora Bibbia del goth, “Ghotic.net”), Matteo venne contattato da un editor che gli commissionò un romanzo che riproducesse quelle atmosfere.

Inizialmente Daniele avrebbe solo dovuto assistere alle sublimi nefandezze dei ragazzi morti, come una sorta di Jack Kerouac ne “I Sotterranei” di Milano, ma c’era qualcosa di artefatto in questo distacco partecipato così in sei mesi l’autore risciacquò i suoi panni nei Navigli lombardi (alla mescalina) e si ammalò insieme al suo alter ego di “smania e febbre”.

La “Notte …” di Curtoni si presta a molte chiavi di lettura sfuggendo allo stereotipo autocompiaciuto del dark di maniera, innanzitutto per la cifra poetica che anima ogni capoverso (“un’anatomia fragile, cedevole che si apre al cromo affilato di lame e spine e artigli, un giardino di fiori scarlatti irrigati dal sangue e quando tutti e tre sono sazi o quasi sazi si raggomitolano attorno alle membra sottili del corpo dell’androgino, cullati dall’odore stantio del giaciglio, dal riverbero sfuggente della fame”) ma anche per il sostrato realmente disturbante di alcuni passaggi (“[…] gli strappa i bottoni della camicia e li manda giù come se fossero pillole, caramelle, qualcosa da mangiare”).

Droga e alcol, appiccicosa sindone che s’incolla allo sguardo accorciando il giorno e scacciando la luce, trasformano il sangue in un venefico miele che scava un buco nello stomaco che non potrà mai essere riempito perché la fame che resta è un’incolmabile ferita, nuda come la verità. E la violenza.

Dietro la parata di ermafroditi e creature dall’ambigua natura sessuale (non dimentichiamo che Curtoni è stato uno dei maggiori traduttori di Clive Barker, cantore dei supplizianti, “angels for some, demons for others”), dietro i suburbs meneghini che anticipavano gli orrori di Rogoredo e dietro un’estetica lavorata ossessivamente come la sceneggiatura di un film irrealizzabile, resta ancora oggi il vuoto esistenzialista che rievoca il miglior Fellini, quello di “Otto e Mezzo”.

“Capire cosa?”

“Che non c’è niente da capire. Che non c’è niente.”

“E se non c’è niente, che cosa resta allora?”

“La fame.”

Come Mastroianni e Claudia Cardinale, dopo l’arte e l’amore (o meglio l’impossibilità d’amare) Maddalena e Daniele si trascinano per la città vista attraverso un vetro imperlato di lacrime e solo l’erotismo delle lacerazioni, inflitte o autoinflitte, ridona sostanza al reale, solo la fame che cancella la memoria e con lei la malinconia d’un possibile futuro, può farli sentire finalmente vivi.

Siamo nelle coordinate di “The Addiction” di Abel Ferrara, nella volontà di potenza nietzscheana e nel rifiuto d’ogni rappresentazione: meglio il feticismo dell’istante che la prosaica costruzione d’una vita digerita da altri, meglio il dualismo vittima e carnefice (sadicamente interscambiabile) che la democratica ovvietà della famiglia.

Parafrasando Baudrillard siamo nella cancellazione dell’immagine con un destino e uno scopo, le nostre azioni non hanno più ombra ed è per questo che “Una notte a mangiare smania e febbre” è a un tempo fortemente visivo e impossibile da trasformarsi in cinema.

La musica anima le pagine di questo romanzo e la musicalità accompagna le vivisezioni e i morsi dei ragazzi morti, nel buio dionisiaco che si frappone all’ordine plastico dell’apollineo Daniele si scava una tana e togliendo il cliché dell’immortalità ai suoi vampiri Matteo ce li rende simili e verosimili, probabili e prossimi, fragili e per niente rassicuranti.

Il mostruoso non è oltre la soglia ma ci abita, “il male accade” e la fame è l’unica cosa che resta, come nella confessione finale di “American Psycho” non c’è catarsi né lezione morale, riduzione di complessità o analisi sociologiche, politiche glosse che riscattino le iperboli di violenza che continuano ad accadere ovunque: siamo nell’orizzonte organico di Isidore Ducasse, Conte di Lautréamont.

Attraverso l’eccesso Matteo crea dei vampiri che diventano degli specchi, invece di sfuggirne i riflessi come vorrebbe la tradizione, e la fame di smania diviene l’universale metafora del buco dei tossici e della bulimia sessuale; cosa succede quando viene meno la coscienza e i ricordi stingono? Quando il nostro corpo non ci basta e la religione non ci soccorre?

Non siamo più oltre ma dopo.

La scena finale, dolcissima e perfettamente coerente con la precedente catabasi, ci ricorda che il motore d’ogni ricerca è il dolore e l’abbandono, che siamo esseri decaduti e sofferenti e che la libertà è schiava della stessa fame che la evoca.

 

Playlist:

 

-          Dead Can Dance, “Spleen and Ideal”

-          Wumpsent, “Totmacher”

-          Bauhaus, “Bela Lugosi’s dead”

 

 

Germano Innocenti

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