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Ambiente e Natura | 20 settembre 2020, 07:50

Gas naturale e fracking: i possibili rischi ambientali se venisse fatto in Europa

Molti geologi stimano che i combustibili fossili finiranno entro la fine di questo secolo. Alcuni esperti però sono sollevati dalla crescita sorprendente dell’industria d’estrazione dei combustibili fossili “non convenzionali”

Foto generica

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Questa tecnica di estrazione ha rivoluzionato il settore energetico statunitense fornendo una nuova fonte di gas naturale per produrre elettricità e per l’esportazione. Altri paesi come la Cina, la Russia e l’Australia stanno investendo per sfruttare i loro bacini di rocce scistose, mentre in Europa continuano le esplorazioni. Quali sono i rischi per il continente e per il nostro paese?

Molti geologi stimano che i combustibili fossili finiranno entro la fine di questo secolo. Alcuni esperti però sono sollevati dalla crescita sorprendente dell’industria d’estrazione dei combustibili fossili “non convenzionali”. Tra questi, i più importanti sia per l’interesse dell’industria e sia per riserve mondiali stimate sono il gas naturale ed il petrolio estratti con il cosiddetto “fracking”.

Si chiamano shale oil e shale gas. Shale si riferisce al tipo di roccia in cui si trova questo petrolio e gas naturale “non convenzionale”: un’argillite scistosa, scura e fissile con un alto contenuto organico. I combustibili fossili “convenzionali” si accumulano in fratture ed in giacimenti in mezzo a sequenze geologiche; questi, invece, rimangono intrappolati nei piccoli pori delle shales. Siccome questi pori sono estremamente minuti (i diametri non superano i 50 milionesimi di un millimetro) e solitamente poco idraulicamente collegati, la procedura di estrazione è più complicata e costosa.

Si usa la fratturazione idraulica o “fracking” in combinazione con la perforazione orizzontale, una tecnologia relativamente nuova. Dopo la trivellazione del pozzo vengono iniettati oltre 10.000 metri cubi d’acqua insieme a dei granuli di quarzo e dello speciale fluido fratturante che contiene composti organici simili a pesticidi. L’alta pressione e gli agenti chimici spaccano la roccia scistosa e dalle fratture fuoriesce il fluido con gli idrocarburi che poi potranno essere estratti dai pozzi.

La scoperta del potenziale per lo sfruttamento degli idrocarburi “non convenzionali” avvenne nel XIX secolo negli Stati Uniti. Oggi, circa un quinto del petrolio prodotto è shale oil e si stima che rappresenti il 10% delle riserve mondiali. La vera svolta la fa invece lo shale gas, che rappresenta ormai più di un terzo della produzione di gas naturale statunitense ed il 30-35% delle riserve mondiali. Ogni giorno ne vengono estratti 1,2 miliardi di metri cubi, ma si stima che la produzione salirà a 15,7 miliardi entro il 2040.

Il fracking ha permesso all’America di eliminare le importazioni di gas russo e di esportare in Europa, con grandi benefici economici e geopolitici. Ma a quale prezzo? Tra le voci della fattura presentata dall’industria petrolifera in cambio dei 3 milioni di lavori aggiunti all’economia americana, troviamo: terremoti in Oklahoma, inquinamento delle acque pubbliche di alcune cittadine in Pennsylvania da arsenico, metano, sodio e fenolo, serio degrado della qualità dell’aria in Michigan per via delle emissioni di metano, ozono e azoto, moria di pesci in Kentucky e molto altro.

Ci sono diversi meccanismi di inquinamento. Il primo è lo sprigionamento di gas nocivi nell’atmosfera attraverso i pozzi. Dopo la fratturazione delle rocce, diversi idrocarburi come metano, benzene e fenolo possono evaporare. Una volta emessi, possono essere ossidati con gli ossidi di azoto per produrre ingenti quantità di ozono, dannoso per la salute.

L’inquinamento delle acque, però, è molto più problematico perché molto frequentemente sopra alle shales vi sono delle importanti falde acquifere che, se venissero contaminate, potrebbero compromettere l’approvvigionamento d’acqua dell’intera regione. Contrariamente a quanto succede con i gas, tuttavia, i liquidi provenienti dalle rocce fratturate non possono ascendere autonomamente verso le falde perché troppo densi. Inquinano soltanto se fuoriescono dai pozzi durante la loro estrazione a causa di avarie o danni alle strutture circolari dei fori.

Questi liquidi, chiamati flowback fluids cioè “fluidi di rientro”, sono molto inquinanti perché provengono da aree anche 3-5 km sotto la superficie terrestre: sono acque molto “vecchie” e che hanno quindi una salinità altissima, anche 10 volte quella dell’oceano. Sono inoltre spesso ricche di alogeni e metalli pesanti come arsenico e bario ed hanno il metano estratto disciolto. Sono anche presenti gli additivi organici aggiunti nei fluidi fratturanti dalle compagnie petrolifere: sebbene affermino che queste sostanze siano in concentrazioni molto basse, ogni anno soltanto negli Stati Uniti ne vengono utilizzati circa 600 miliardi di litri di un migliaio di tipi diversi, quasi tutti cancerogeni.

Allo stesso modo la contaminazione può raggiungere le acque superficiali (fiumi e laghi). I fluidi di rientro possono salire in superficie ed entrare nei fiumi dalle falde acquifere se esiste sufficiente interconnessione idrogeologica. L’inquinante può altresì dilagare nell’ambiente in seguito ad uno smaltimento illegale o inappropriato dei fluidi di rientro in cisterne e laghetti artificiali.

Altri paesi stanno investendo per sfruttare i loro bacini di rocce scistose ed il 13% di shale gas è ora prodotto in Canada, seguito da Cina (2%), Australia (1%) e Russia. L’Europa sta osservando questi cambiamenti nel settore energetico mondiale e, ansiosa di raggiungere l’indipendenza energetica da USA e Russia, incomincia l’esplorazione dei suoi 15.000 miliardi di metri cubi di gas “non convenzionale”. I primi test sono incominciati in Polonia, lo stato europeo con la quantità più abbondante e che ha attratto l’interesse dell’ENI, ed in Regno Unito, dove però sono stati interrotti nel 2010 dopo la misurazione di scosse sismiche vicino a Lancaster.

Anche Francia, Bulgaria, Romania e Olanda hanno quantità significative del combustibile fossile, mentre in Italia mancano le condizioni geologiche per avere dei giacimenti di valenza economica. Gli italiani non dovrebbero quindi preoccuparsi della qualità della loro acqua in questo senso, ma importando questo gas in futuro potremmo contribuire al degrado ambientale che affliggerà i nostri vicini europei. Tuttavia, una riduzione della qualità dell’aria a causa di queste operazioni, specialmente nella vicina Francia, potrebbe avere delle ripercussioni sul nostro paese.

Il fracking, come dimostra l’esperienza statunitense, presenta molti rischi alla salute della popolazione, siano essi gas tossici vicino ai centri abitati, inquinanti nell’acqua potabile o una pericolosa attività sismica antropogenica. Ora starà ai governi d’Europa decidere se i benefici economici e geopolitici varranno la pena di prendersi questi rischi sulla pelle dei loro cittadini.

Nicola Gambaro

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