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Attualità | 20 gennaio 2021, 17:09

Giornata della Memoria, la testimonianza dell'avvocato Brunetti sugli esperimenti subiti dalle sue prozie ad Auschwitz

Nuova luce, su una vicenda di 75 anni fa, viene portata dal nipote di Isacco Levi, ebreo, partigiano garibaldino della Valle Varaita. "Il passato ritorna sempre e non sia mai che lo si debba vivere un’altra volta"

Isacco Levi

Isacco Levi

I Levi di via Spielberg, dai quali discende per parte di madre, erano la famiglia più numerosa della Comunità ebraica saluzzese. Durante la guerra soltanto suo nonno, Isacco Levi, riuscì a salvarsi fuggendo in Valle Varaita e combattendo come partigiano garibaldino. Tutti gli altri suoi famigliari, invece, furono internati nel campo di Borgo San Dalmazzo, deportati nel lager di Auschwitz e infine uccisi. Tutti e 13. Ecco perché la Giornata della Memoria, ogni 27 gennaio, per l'avvocato saluzzese Antonio Brunetti non è un giorno qualunque. Come non dovrebbe esserlo per chiunque abbia a cuore la storia, perché l'orrore della Shoah mai più si ripeta.

Ora che suo nonno è venuto a mancare, nel settembre 2019, l'avvocato Brunetti ne ha idealmente raccolto il testimone, perché non si dimentichi ciò che è stato. Con tutta la sofferenza di chi ha vissuto nella propria famiglia il dolore portato da una crudeltà senza senso, pubblichiamo la sua lettera.

"Vorrei gridare al mondo il mio dolore per far sapere, una volta per tutte, che la guerra non si è conclusa nel gennaio del 1945. La paura di essere uccisi e di restare soli ha penetrato la mente e il cuore dei sopravvissuti, dei loro figli e nipoti, condizionandone l’esistenza. Vorrei gridare al mondo la mia profonda inquietudine e raccontare a tutti l’indicibile per scuotere le coscienze dei popoli d’Europa, ieri indifferenti ed oggi troppo distratti per poter ascoltare. Vorrei che il mio grido raggiungesse i quattro angoli della Terra e tutti sapessero anche quello che mio nonno, Isacco Levi, non ha avuto la forza di raccontare a voce alta.

Testimoniare, infatti, è difficile perché ogni parola detta o scritta è simile ad un pizzico di sale fatto cadere su una ferita aperta. Brucia, brucia terribilmente anche a me scrivere la storia della mia famiglia massacrata nel lager di Auschwitz.

Pochi conoscono la tragedia nella tragedia toccata alle mie povere prozie, Amelia Levi e Beniamina Levi, durante i mesi di prigionia trascorsi nel campo di eliminazione nazista. Entrambe furono destinate a subire obbrobriosi esperimenti ginecologici. Il lurido Carl Clauberg fece iniettare nei loro corpi indifesi sostanze volte a provocarne la sterilità e, per testare il successo delle proprie orripilanti pratiche, le fece anche violentare. Quando mio nonno, pochi anni prima di morire, alluse in modo vago a quelle violenze, ricordo la sua fatica nel pronunciare poche striminzite parole e ricordo distintamente anche la mia nell’ascoltare ciò che non volevo né potevo accettare. Come potevo accettare che le mie prozie fossero state sottoposte a esperimenti brutali e poi anche violentate? Eppure, di tanto in tanto, questo interrogativo tornava ad occupare i miei pensieri e in una serie concatenata di ricordi non potevo dimenticare il giorno in cui mio nonno, nel parlarmi di sua sorella Amelia, si lasciò scappare la seguente mesta esclamazione: “Mia sorella ha avuto la sfortuna di vivere persin troppo!”.

Nonostante questa serie di ricordi fra loro concatenati mi dovesse indurre a ritenere che avevo ben compreso a cosa mio nonno alludesse, continuavo a negare a me stesso di aver capito e, tormentato, cacciavo dalla mia mente quei pensieri terribili. Il passato però ritorna sempre e, proprio quando pensavo di essermi liberato di ciò che non volevo né potevo accettare, le vaghe e striminzite parole del nonno sono ritornate, cadendomi addosso come macigni.

La scorsa estate fui raggiunto da una telefonata inattesa: il prof. Livio Berardo, già presidente dell’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo, mi riferiva di essere stato contattato dal prof. Frediano Sessi, fra i massimi studiosi italiani di Auschwitz, e di dovermi dare informazioni a proposito delle mie prozie. Laura Geiringer, triestina di origini ebraiche, sopravvissuta alla liberazione del ventisette gennaio 1945, aveva condiviso con le mie prozie la baracca e gli orrori del lager, dalla stessa raccontati, seppur soltanto in parte, in un breve memoriale. Ecco che, alla serie concatenata di ricordi, la mia mente aggiungeva un nuovo anello: mio nonno mi aveva riferito di aver incontrato a Saluzzo, subito dopo la guerra, una ragazza triestina e di aver ricostruito, tramite suo, gli ultimi mesi di vita delle mie prozie. Mai, però, volle nominare Laura Geiringer o anche solo fornire una chiara ricostruzione di quel drammatico incontro.

Settantacinque anni dopo ho scoperto tutto e ho anche preso visione di documenti storici che non consentono più di negare a me stesso quei pensieri terribili che avevo sepolto nel recondito. La tragedia nella tragedia di Laura Geiringer e delle mie prozie non può più essere taciuta e deve essere gridata, una volta per tutte, ai quattro angoli della Terra, perché tutti devono conoscere gli orrori del nazi-fascismo. Il ricordo deve prevalere sull’indifferenza omicida perché, come detto, il passato ritorna sempre e non sia mai che lo si debba vivere un’altra volta".

P.R.

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