“Austerlitz” è un film del 2016 di produzione tedesca, scritto e diretto da Sergei Loznitsa.
La pellicola, nella forma di un documentario, segue i visitatori dei vari campi di concentramento sparsi in tutta Europa, interrogandosi profondamente su cosa li spinga a raggiungere questi “musei storici dell’orrore” e cosa essi cerchino o si aspettino di trovare nelle reliquie della barbarie nazi-fascista.
Siamo di nuovo arrivati a quella settimana dell’anno, quella che ospita il Giorno della Memoria, la data in cui l’intero mondo celebra e ricorda le morti dell’insensato programma nazi-fascista.
Che si tratti di una delle pagine più terrificanti della Storia recente non sta a me dirlo. Un fatto storico che – nonostante i preoccupanti dati relativi al negazionismo (sui quali più avanti torneremo) – ha condizionato e continuerà probabilmente a condizionare diversi aspetti della nostra vita. Non ultimo, quello di cui trattiamo in questa rubrica, e cioè la cultura popolare nei media del cinema, delle serie tv e del fumetto.
Tra la produzione cinematografica relativa al fenomeno dei campi di sterminio “Austerlitz”, secondo me, spicca per originalità e per il modo in cui affronta la tematica riflettendo non tanto su quanto è stato – cosa che, a ben vedere, nella produzione letteraria del nostrano Primo Levi forse non sarebbe nemmeno più giusto o sensato fare (per quanto necessario comunque) - , ma su come le persone del XXI° secolo guardino agli eventi storici.
Seguendo le esperienze dei visitatori che ogni anno, a frotte, si presentano nelle strutture degli ex-campi di sterminio, il documentario dipinge un’umanità variegata, che s’interfaccia alla tematica dello sterminio nazi-fascista con modi sempre differenti ma quasi con atteggiamento banale e timido: non colpevolmente, però, soltanto perché difficilmente ci si può comportare in modo diverso davanti alla “prova provata” di quel che è successo.
Con l’andare del tempo, lo sappiamo, i testimoni diretti di quelle barbarie scompariranno del tutto. E rimarremo soltanto noi, con la nostra interpretazione di un mondo che – almeno in apparenza – ha visto il proprio lato peggiore e si spenderà sempre per continuare a soffocarlo con forza.
Ma le conseguenze di traumi di questa portata non si possono superare se non metabolizzandoli, affrontandoli davvero, con un processo lungo e complesso che non può risolversi in una sola giornata di visita museale. Senza nulla togliere all’esperienza, ovviamente profonda, questo processo trascende la sfera personale e tocca la società intera.
Come ci rapportiamo, noi italiani, al fatto di essere stati centro nevralgico di questa barbarie? Ci siamo mai davvero – a livello di “popolo” - guardati in faccia in questo senso, abbiamo mai davvero compreso le nostre colpe e accettato il nostro ruolo in quella parte di Storia? Perché sì, siamo anche stati la culla del più grande impero che l’umanità ricordi, ma non siamo stati – e, per certi versi purtroppo, non siamo nemmeno ora – soltanto questo.
Sono queste le riflessioni a cui dovrebbe portarci il Giorno della Memoria. Perché la memoria non può essere davvero utile se rimane in una teca, sotto lo sguardo di così tante persone diverse da perdere qualsiasi valenza – e, appunto, le percentuali di italiani che credono in concetti negazionisti o considerano “esagerate” le storie relative alla vita nei campi di sterminio realizzano proprio questa eventualità - ; deve essere parte di noi, dobbiamo darle un peso nel nostro processo sociale.
Dobbiamo farlo. Non abbiamo altra scelta, se vogliamo sperare di non avere un’altra opportunità.