“Il campo di concentramento mi ha accompagnato per tutta la vita. A scuola io giocavo a quello con i miei compagni. Li mettevo tutti in fila a fare l'appello, poi decidevo chi poteva rientrare nella baracca e chi invece doveva andare nelle camere a gas. Appena gli insegnanti se ne accorgevano mi bloccavano. Ma il mio gioco preferito era nascondino. Ero bravissima. Sapevo nascondermi nel posticino più buio dove nessuno mi trovava mai. Rimanevo lì anche quando erano tutti a casa. Per anni sono rimasta nel campo con la mente”.
Difficile ascoltare la testimonianza di Lidia Maksymowicz, 82 anni, sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Ieri sera, martedì 6 dicembre, si è raccontata nella biblioteca di Borgo San Dalmazzo. Nel pubblico c'era tantissima gente, tutti in silenzio. L'incontro è stato organizzato dall'amministrazione comunale grazie alla collaborazione con l'associazione “Memoria Viva” e allo spunto del borgarino Roberto Dutto. “Un colpo al cuore vedervi così numerosi in biblioteca”, ha commentato la sindaca Robbione commossa.
Quanto tempo hai passato nel campo di concentramento? La domanda è arrivata chiara e candida da Gioele, un bambino che per tutto il tempo ha ascoltato assorto le parole di Lidia.
“Secondo i documenti storici sono la bimba che ha passato il tempo piu lungo nel campo. Ben 13 mesi. Un vero miracolo”.
Tutto raccontato nel libro “70072 La bambina che non sapeva odiare”, scritto a quattro mani con Paolo Rodari, con la prefazione a cura di Papa Francesco che, in un recente incontro, le ha baciato il numero tatuato sul braccio. Quel numero, oggi un po' sbiadito, è proprio il 70072: lo stesso tatuato sul braccio della sua giovane mamma deportata insieme a lei nel campo per aver aderito alla resistenza bielorussa. Un numero che Lidia si copriva col cerotto da adolescente per non sembrare diversa dagli altri e che le permetterà di ritrovare a 21 anni la madre naturale, pure lei sopravvissuta, che non aveva mai smesso di cercarla ma che non poteva raggiungerla perché le divideva la "cortina di ferro".
Lidia Maksymowicz aveva tre anni quando venne deportata su un carro bestiame. Rinchiusa nella "baracca dei bambini" da dove prendeva le sue cavie il dottor Joseph Mengele, verrà salvata da una famiglia adottiva polacca il giorno della Liberazione del campo.
Di Auschwitz-Birkenau le rimangono pochi ma lucidi ricordi: “Non era una casa normale. C'erano tanti bimbi come me. Eravamo senza giocattoli e senza cibo. Non c'erano le mamme, non si facevano passeggiate e non si raccontavano favole. Avevamo nulla. La mattina ci davano una fetta di pane nero. A mezzogiorno un po' di zuppa che era difficile chiamare zuppa. Non eravamo legati. Non c'era solidarietà. Eravamo guidati dall'istinto animalesco di sopravvivenza. I giorni erano tristi e tutti uguali, passati seduti su delle tavole dure o sul vasino perchè avevamo sempre la dissenteria. Faceva freddo ed era sempre molto buio. Le finestrelle erano piccole e facevano passare poca luce. C'era un terribile odore, ratti, insetti, niente acqua per lavarsi. Ricordo che un giorno caddi da questi tavolacci e mi feci male; piangevo e la guardiana mi diede qualcosa di dolce per calmarmi. È l'unico ricordo positivo, mi è rimasto impresso.
La mamma invece veniva rarissime volte e mi portava qualcosa da mangiare, mi ricordava come mi chiamavo e da dove venivo. Mi diceva che sarebbe venuta a prendermi ma non c'è mai riuscita. Ero sola tra sconosciuti ma non mi lamentavo perché si veniva puniti severamente dalla guardiana che usava il bastone e il frustino”.
Lidia Maksymowicz è sempre stata molto restia a parlare di quanto le era accaduto, ma ha da poco deciso di raccontare la sua storia in memoria degli oltre duecentomila bambini che hanno perso la vita ad Auschwitz-Birkenau e che, sino ad ora, erano "stati raccontati" in poche occasioni. “Venivamo trattati come gli adulti. Eravamo presenti all'appello tutte le mattine. Venivamo contati con i numeri tatuati. Ogni giorno ne mancava uno. Portavano via i cadaveri davanti ai nostri occhi e li lanciavano sui carri. Era normale. La morte era normale. Non reagivamo. Per questo ho accettato in modo naturale che mia madre fosse morta e non l'ho cercata per 17 anni. Oggi però mi sento in obbligo di parlare a nome di chi non c'è l'ha fatta. Al momento della Liberazione del campo furono trovati vivi 200 bambini, 40 della mia età circa. Ma molti di loro non sopravvissero a lungo per la vita di stenti passata nel campo”.
Il numero di Lidia Maksymowicz è scritto nero su bianco sui faldoni di Mengele: “Io non ricordo nulla, ma c'è la testimonianza storica che ho fatto parte degli esperimenti. Mengele ci trattava come cavie. Sceglieva i più forti e li portava nella baracca vicino al suo laboratorio”.
Eppure ha scelto di non odiare e di perdonare: “Non sono in grado di odiare perché sono cresciuta nello spirito cristiano grazie alla mia famiglia adottiva. Odiare significa soffrire ancora di più. L'odio distrugge tutto. Nell'odio nascono persone come Hitler e Stalin”.
Per anni non ha pensato alle sue origini, forse nel tentativo di dimenticare quegli anni assurdi di infanzia rubata. Poi furono gli amici a spingerla a scavare nel suo passato: “Ero convinta che mamma fosse morta, non mi mancava e non la rimpiangevo. Poi scrissi all'ufficio di ricerche di Amburgo in Germania. Ci misero tre anni per dirmi che mia madre era viva e stava in Russia. Avevo 21 anni. Mi stava cercando negli orfanotrofi dell'Unione Sovietica. Cercava una bimba col numero 70072 tatuato sul braccio. Il suo primo messaggio era un telegramma. Mi chiedeva dov'ero e chi si era preso cura di me. In quel momento provai un po' di rammarico. Perché non era venuta a prendermi? Ma poi la vidi e scomparve tutto. A quel punto avevo due famiglie, una russa e una polacca. Sono sopravvissuta all'impossibile. La mia storia è finita bene come poche altre. Ma non sono andata in Russia. Sono rimasta nella mia famiglia adottiva fedele ai valori cristiani".
Oggi Lidia Maksymowicz ha un figlio, una nuora, due nipoti e un bisnipote: “Non sono una donna forte. Ogni incontro come questo mi provoca grandi emozioni. Sono qui per parlare di quelli che non sono riusciti a sopravvivere. Lo faccio perchè tutto questo non succeda mai più. So che la mia storia non è facile. Eppure oggi ci sono tragedie che si ripetono. Penso alla guerra in Ucraina. Mi appello ai giovani, il futuro dipende da voi. Vi chiedo di mettere da parte il male e fare ogni sforzo per giungere alla pace”.
L'incontro, toccante ed emozionante, si è chiuso con il pubblico in piedi e un lungo applauso a questa donna che ha visto l'inferno in terra ma che ha scelto la strada dell'amore.