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Farinél | 02 febbraio 2025, 11:22

Farinél/ 80 anni di suffragio universale che non possiamo dare per scontati

Il 1° febbraio del 1945 con un decreto legislativo fu stabilito il diritto di voto alle donne in Italia, a condizione che avessero almeno 21 anni. Un cambiamento epocale raccontato magistralmente dal film “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi, ma nel 2024 solo il 41% delle donne aventi diritto al voto si è recata alle urne

Una scena del film "C'è ancora domani" di e con Paola Cortellesi

Una scena del film "C'è ancora domani" di e con Paola Cortellesi

Scusate se per una volta sconfino su temi che travalicano i confini di Langhe e Roero, ma lo faccio solamente perché mi sta particolarmente a cuore il tema di cui andrò a parlare, pur sapendo che il nostro Farinél potrà fare ben poco per cambiare le cose, ma se questo articolo riuscirà ad accendere l’ardore per la politica in qualche ragazzo o ragazza non sarà stato scritto invano.

So già che mi si dirà che è impossibile oggi avere fiducia nella politica e che sia naturale non recarsi alle urne, ma è una questione di lana caprina perché esercitare il proprio diritto al voto è l’unica via che abbiamo per cambiare le cose, non ve ne sono altre.

Come raccontato nel film “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi quello del diritto al voto è stato un percorso lungo e tortuoso e per nulla scontato.

Quel primo febbraio 1945, la guerra non era ancora finita, ma il governo in carica decise che era giunto il momento delle donne al voto. La decisione arrivava dopo decenni di iniziative e richieste per avere il suffragio universale nel nostro paese. Circa un anno dopo, le donne poterono votare per la prima volta, ma non al referendum del 2 giugno per scegliere tra monarchia e Repubblica, come molti credono.

Sappiamo bene che nell’ultima tornata elettorale, per le elezioni europee, ha votato meno di un italiano su due, il 49,69% degli aventi diritto al voto. È la prima volta che succede e purtroppo la sensazione è che sia la prima di tante volte perché la tendenza è impietosa e ha visto un crollo costante degli italiani al voto.

In questo dato già profondamente avvilente spicca quello ancora più triste, non mi vengono altre parole, delle donne che hanno votato al 41%. Tre donne su cinque non hanno esercitato il loro diritto al voto così duramente conquistato.

La giornalista Viviana Daloiso su Avvenire scrive: “La coda per la strada. L’emozione incontenibile. Il sogno realizzato di salire la scala, entrare nel seggio, pulire la bocca dal rossetto e assicurarsi che, sì, c’eravamo. Abbiamo votato anche noi per il domani dell’Italia. Le immagini finali del film di Paola Cortellesi C’è ancora domani, che hanno commosso le sale dei cinema quest’anno e innescato il dibattito ancora inesaurito sull’importanza del voto delle donne e sul loro ruolo irrinunciabile nella costruzione della Repubblica, sembrano sbiadire davanti agli esiti impietosi dell’ultima tornata elettorale”

Le donne si sono dimostrate del tutto disinteressate alla campagna elettorale, nemmeno avere due leader donna, Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia ed Elly Schlein per il Partito Democratico, che per la prima volta si sfidavano nell’agone della politica nazionale ha cambiato le cose. Viviamo in un paese che sta regredendo e in cui, come si sottolinea nel pezzo pubblicato da Avvenire l’astensione s’è fermata a poco più del 40% dei lavoratori e delle lavoratrici autonomi, tanto per fare un esempio, e ha toccato quasi il 60% nel caso dei ceti bassi. Al sud le donne votano ancora meno che al nord e la sfiducia è ai massimi storici.

Proprio nel momento in cui ci sarebbe più bisogno di cambiare le cose e che a cambiarle fossero le donne ecco che l’elettorato femminile si sfila.

In un sistema democratico rinunciare al proprio diritto di voto non può rappresentare una forma di protesta, è semplicemente rinunciare al più importante tra i diritti di cui possediamo.

Vale per le donne e anche per gli uomini, ovviamente, perché il suffragio universale non è piovuto dal cielo ma ha rappresentato una difficile conquista.

La prima via italiana al riconoscimento di un suffragio davvero universale fu quella giudiziaria, quando il 17 marzo del 1861 la carta fondamentale della nuova Italia unita divenne lo Statuto Albertino che all’articolo 24 diceva:

«Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi».

Le eccezioni, se non l’aveste capito erano le donne. In seguito, la riforma elettorale del 1882 concesse il diritto di voto a una parte consistente del movimento operaio portando il corpo elettorale dal 2,2 per cento della popolazione a circa il 7 per cento, ma continuò a non contemplare le donne.

Nel 1877, Anna Maria Mozzoni, milanese, femminista e socialista, rifacendosi alle esperienze inglesi, francesi e statunitensi aveva presentato una petizione al governo «per il voto politico alle donne», la prima di una lunga serie ad essere bocciata.

Nel 1906 la pedagogista Maria Montessori scrisse sul giornale La vita un articolo in cui ribadiva la necessità di iscrivere anche le donne nei registri elettorali, specificando che la legge non poneva alcun esplicito divieto.

Quello stesso anno le Corti di appello di sei città (Firenze, Palermo, Venezia, Cagliari, Brescia e Napoli) pronunciarono altrettante sentenze per bocciare il riconoscimento dell’elettorato politico alle donne che alcune Commissioni elettorali provinciali avevano accolto.

Poi arrivarono la guerra e il regime fascista e il voto alle donne rimase in un cassetto, dove finirono un po’ tutti i diritti degli italiani in 20 anni di sanguinosa dittatura.

Se ne tornò a discutere durante la seconda guerra mondiale come scrive Il Post: “Il 30 gennaio del 1945 con l’Europa ancora in guerra e il nord Italia sotto l’occupazione tedesca, durante una riunione del Consiglio dei ministri si discusse del suffragio femminile, che fu sbrigativamente approvato come qualcosa di ovvio o, a quel punto, di inevitabile. Il decreto fu emanato il primo febbraio: potevano votare le donne con più di 21 anni a eccezione delle prostitute che esercitavano «il meretricio fuori dei locali autorizzati». Nel decreto venne però dimenticato un particolare non da poco: l’eleggibilità delle donne che venne stabilita con un decreto successivo, il numero 74 del 10 marzo del 1946; sui giornali se ne parlò pochissimo Il 10 marzo del 1946 fu la prima occasione in cui le donne italiane poterono votare e essere votate nel corso di un’elezione. Il suffragio femminile in Italia non iniziò infatti con il referendum del 2 giugno 1946 per scegliere tra Repubblica e Monarchia, svolto in contemporanea alle elezioni per scegliere i membri dell’Assemblea Costituente, bensì alcuni mesi prima in occasione delle elezioni amministrative”.

Le prime elezioni furono una grande festa: si votò in 5.722 comuni in cinque tornate, dal 10 marzo al 7 aprile, e in altri 1.383 comuni in otto tornate in autunno, per rinnovare le amministrazioni comunali di tutti i capoluoghi di provincia (tranne Bolzano e Gorizia, dove si votò nel 1948), un tempo governati dai fascisti.

Le donne risposero in massa e l’affluenza generale superò l’89%.

Vennero anche elette le prime sindache della storia d’Italia: Margherita Sanna a Orune, in provincia di Nuoro; Ninetta Bartoli a Borutta, in provincia di Sassari; Ada Natali, a Massa Fermana, in provincia di Fermo; Ottavia Fontana a Veronella, in provincia di Verona; Elena Tosetti a Fanano, in provincia di Modena; Lydia Toraldo Serra a Tropea, all’epoca in provincia di Catanzaro.

La stessa grande partecipazione ci fu in seguito anche per il referendum del 2 giugno, in cui italiane e italiani scelsero la forma istituzionale dello Stato, la Repubblica.

Dall’89% al 41%, come è potuto succedere?

Marcello Pasquero

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