Il cinema come strumento per catturare la realtà e tramandarne il ricordo, creando momento di condivisione e comunità. Questo l'obiettivo che caratterizza tutta la produzione del regista Remo Schellino che, fin da giovane, ha capito le potenzialità della macchina da presa per dare voce alle storie di tutti noi.
Con uno sguardo attento e delicato, ha trasformato le riprese in un dialogo di memoria collettiva, catturando voci, tradizioni e storie.
A pochi giorni dalla prima proiezione del suo nuovo lavoro "In verità vi dico", sulla vita di sei figure ecclesiastiche, tra vocazione, dubbi e umanità, lo abbiamo contattato per conoscere più a fondo la sua passione per il cinema e in particolare per il documentario. Un dialogo sincero nel quale emerge quanto conti ancora, nell'epoca della velocità e del digitale, il potere delle immagini per capire il mondo e costruire comunità.
[Foto di Guido Fornaro]
Come e quando nasce la sua passione per il cinema e, soprattutto, per la regia?
"Già all’inizio delle scuole superiori, anche per la mia militanza in associazioni, avevo scoperto la potenzialità della macchina da presa. Un’arma, se usata malamente; uno strumento, invece, che se usato con intelligenza può aiutare a comprendere a capire la storia e renderci consapevoli del nostro vivere.
Cominciai una collaborazione con alcune emittenti: Rete7 Piemonte e Telecupole facendo pratica e imparare il mestiere: le riprese, la fotografia, il montaggio. Poi nel marzo del 1991 ho costituito la mia casa di produzione 'Polistudio', oggi con sede a Naviante una frazione di Farigliano, che si occupa del film documentari dove io ne sono il produttore e il regista.
Condivido la definizione di documentario data dalla regista Cecilia Mangini, che ha detto: “È un luogo di resistenza poetica, ma anche un luogo di resistenza dell’anima, dell'intelligenza, dell'ostinazione. Come si può fare a meno del documentario".
Ho contribuito a proteggere la memoria perché “nulla siamo se non la somma dei nostri ricordi” e soprattutto ho scelto il mio lavoro, in parte me lo sono anche costruito con fatica, ma anche con grande gioia".
[Foto di Guido Fornaro]
I suoi documentari raccontano storie e persone del territorio, alcune più note, altre meno, ma tutte capaci di lasciare un’impronta nella gente. In base a cosa vengono scelti i temi e le testimonianze?
"Le scelte sono legate essenzialmente al racconto del nostro vivere in questa parentesi terrena. Un lavoro di memoria, legato alla narrazione orale, al racconto della quotidianità scandita da ritmi e da riti, dalla sofferenza di una guerra, da una voglia di riscatto sociale per dare giusto valore e senso alla vita. All'immagine visiva si attribuiscono virtù pressoché magiche: parla da sé, mostra e ciò basta. Unendo all'immagine la voce, il gesto, il suono si raggiunge il massimo del vissuto.
Per me il video o la pellicola sono il supporto, ma la sostanza, quello che chiamiamo "film", è la storia narrata attraverso un dispositivo di immagini in movimento.
La motivazione fondamentale che mi spinge a realizzare film documentari che raccontino eventi collettivi, a carattere politico e sociale, è sempre la stessa: approfondire alcuni aspetti del periodo storico che sto vivendo, senza dimenticare le mie radici. Non ho mai preteso di sostituirmi agli storici: il mio racconto si ispira all'antropologia visiva e attraverso di essa si esprime".
Quanto lavoro c’è dietro alla realizzazione di un documentario?
"Tanto, il giusto, per guardare e riguardare, sentire e risentire ogni parola.
Legare nel montaggio gli sguardi e i movimenti delle mani con pause di silenzio che a volte parlano più delle parole. Un tempo che occupa molte ore delle mie giornate perché la costruzione di un documentario parte da un’idea, dallo sviluppo, dai sopralluoghi, dalle riprese ma, soprattutto, riesce se si crea empatia tra me e l’interlocutore.
In sala montaggio il film si costruisce sul buon risultato di un incontro".
Storie e tradizioni, ma anche riflessioni, pensiamo alla “Trilogia della vita” …
"Era un progetto, poi realizzato in piena pandemia, che avevo da anni. Molte delle interviste, specialmente riguardo al primo e al secondo film 'Venire al mondo' e 'Stare al mondo' erano già state archiviate da me anni prima. Riguardo all’ultimo 'Andare all’altro mondo' no. Tutto si sviluppato in un viaggio a più tappe in Italia dove ho raccontato il rapporto che abbiamo con la morte e riti a lei connessi. Un modo per riflettere e ridimensionare il nostro presente in un senso alto del nostro “stare al mondo”.
[Foto di Fulvio Silvestri]
Oggi, nell’era del digitale, della velocità, quanto è importante riuscire ancora a trovare il tempo di apprezzare il cinema a 360°?
"Il mio cinema itinerante non è solo uno schermo e delle immagini è anche un modo di stare insieme, di condivisione. È un modo di ritornare a fare comunità, all’incontro che è sempre scambio di idee di emozioni. In un mondo sempre più teso all’individualismo il cinema può essere uno strumento utile, soprattutto il documentario sociale che trattando temi legati alla nostra vita ci aiuta ad una riflessione.".
A Rocca de’ Baldi presenterà il suo ultimo lavoro, “In verità vi dico”, perché e come ha scelto di raccontare la vita di preti e figure ecclesiastiche?
"Le domande, la domanda.
Chi è l’uomo sotto i paramenti sacri?
Chi sono e che cosa fanno i parroci?
Papa Francesco si rivolgeva alla sua Chiesa, talora impaurita e la invitava ad avventurarsi in tutte le periferie, a partire da quelle esistenziali, che offrono una prospettiva migliore per vedere e capire.
Preferiva una Chiesa “incidentata” frequentando territori di umanità variegata, a una Chiesa ingessata che rischia di perdere il contatto con la realtà. Propone uno sguardo dal basso, dove si respira il passato, il presente e il futuro di una nuova Chiesa. Il documentario è il ritratto di sei parroci che raccontano la scelta vocazionale con le proprie fatiche esistenziali, i dubbi, le certezze di aver intrapreso un cammino voluto e cercato ma anche l’abbandono del ministero sacerdotale.
È anche un’analisi antropologica e sociologica del tempo in cui viviamo calato nel mondo di una Chiesa che sta rimettendo in discussione il proprio ruolo nel mondo di oggi.
Traccia un percorso anche innovativo e forse spiazzante, per una Chiesa, nei suoi pastori, povera, aperta, ponendosi anche la prospettiva di un ruolo nuovo da riconoscere e affidare alle donne".
La prima del documentario "In verità vi dico" sarà al Castello di Rocca de' Baldi, martedì 24 giugno alle 21. Nel documentario le testimonianze di: don Michele Paschetta, classe 1910 (parroco di Ormea), don Angelo Dalmasso, classe 1918 (deportato a Dachau), don Meo Bergese, classe 1941 (missionario in Brasile), don Franco Servetto, classe 1923 (parroco di Serravalle Langhe), don Federico Suria, classe 1981 (parroco a Chiusa Pesio) e Mauro Borra, classe 1969 (ex parroco di Carrù).