Quella di Francesco, il detenuto pugliese di 260 chili che per circa un mese è stato “piantonato” giorno e notte all’ospedale Santa Croce di Cuneo, è una vicenda che, ancora una volta, mette in luce la precarietà del sistema penitenziario italiano. Un mondo spesso percepito come distante dalla vita quotidiana, una zona d’ombra che continua a restare ai margini dell’attenzione pubblica.
In particolare, la storia di questo detenuto affetto da gravi patologie, prima fra tutte l’obesità, ha evidenziato le difficoltà di coordinamento e di competenza tra Asl e amministrazione penitenziaria. Un problema che affonda le sue radici nella riforma del 1° aprile 2008, quando la gestione della salute dei detenuti, in precedenza di competenza del Ministero della Giustizia, passò formalmente al Servizio sanitario nazionale.
La riforma nasceva con l’intento di garantire l’indipendenza del personale sanitario e di rispettare il principio di equivalenza delle cure, sancito dall’OMS: assicurare ai detenuti la stessa qualità di assistenza sanitaria riservata ai cittadini liberi, pur tenendo conto della loro condizione di privazione della libertà e dell’impossibilità di accedere ai servizi territoriali. Un principio che, però, nei fatti sembra spesso disatteso.
Tutto ha avuto inizio lo scorso 23 agosto, quando Francesco, dopo aver minacciato di incendiare la Rsa di Bra dove era ospitato, è stato arrestato e condotto nel carcere di Cuneo. L’uomo, condannato in via definitiva con fine pena nel 2037, godeva da un anno del regime di detenzione domiciliare concesso dal magistrato di sorveglianza di Lecce. Prima del trasferimento nella Rsa di Bra, dove la misura è stata poi aggravata per motivi di sicurezza, Francesco aveva trascorso un periodo di detenzione presso l’abitazione del fratello, sempre a Cuneo.
Collocato ai domiciliari, non era più in carico al Ministero della Giustizia: il suo soggiorno nella struttura di Bra era pagato in parte da lui e in parte coperto dal Servizio sanitario nazionale, vista la sua invalidità.
Chi ha condiviso con lui quel mese di attesa racconta di un uomo dal carattere difficile, un fumatore accanito che necessitava di ossigenoterapia continua. Tuttavia, il carcere di Cuneo non era in grado di accoglierlo: mancava un letto di portata adeguata. Così Francesco è stato trasferito al pronto soccorso dell’ospedale Santa Croce, dove è rimasto per un mese, ospitato nel reparto di Medicina d’urgenza in attesa di una nuova sistemazione.
In un primo momento sembrava che potesse essere accolto alle Molinette di Torino, nel reparto di Medicina protetta riservato ai detenuti (il cosiddetto “repartino”). Ma, dopo poche ore, nella notte del 27 agosto, è stato rimandato a Cuneo: le celle disponibili non erano idonee alle sue esigenze fisiche e lui stesso si era rifiutato di scendere dall’ambulanza.
Neppure il “repartino” dell’ospedale San Martino di Genova ha potuto accoglierlo: mancavano barelle e letti adeguati al suo peso. Alla fine, l’Asl genovese si è fatta carico del caso trovandogli una sistemazione nel carcere di Marassi.
Resta però un interrogativo: la casa circondariale di Cuneo non avrebbe potuto acquistare un letto di portata? La risposta, come spiega uno degli agenti penitenziari che ha sorvegliato Francesco durante la degenza, è complessa: "Non è una questione di noleggio del letto – spiega –. L’amministrazione penitenziaria avrebbe potuto procurarselo, ma sarebbe comunque servito il supporto dell’Asl, con personale Oss e assistenza sanitaria continua, figure che nelle carceri non esistono".
A differenza di città come Napoli, Roma o Milano, Cuneo non dispone di centri diagnostici terapeutici penitenziari (Cdt) dotati di reparti ospedalizzati interni. "Il problema – conclude l’agente – è che l’amministrazione non si è ancora adeguata a situazioni di questo tipo. La sanità penitenziaria dovrebbe tornare sotto la gestione del Ministero della Giustizia. Così com’è, è solo una guerra di competenze".