Ho recentemente letto un bel libro dal titolo "L'epoca delle passioni tristi" scritto da due psichiatri Benasayag e Schmit, che operano nel campo dell'infanzia e dell'adolescenza, i quali hanno voluto interrogarsi sulla reale entità e sulle cause del diffondersi delle patologie psichiatriche tra i giovani.
Hanno scoperto un malessere diffuso, di una tristezza che attraversa tutte le fasce sociali, un'epoca dominata da quella che Spinoza chiamava "le passioni tristi" (Nel Trattato politico Spinoza critica quei filosofi che "concepiscono gli affetti [le passioni], fonte dei nostri tormenti, come vizi nei quali l'uomo cade per sua colpa: sono soliti perciò deriderli o compiangerli, biasimarli. [così finiscono per concepire] gli uomini non come sono, ma come vorrebbero che fossero" (TP I,4) , che porta ad un senso pervasivo di impotenza e incertezza che ci porta a rinchiuderci in noi stessi, a vivere il mondo come una minaccia.
Avvisando il lettore di non voler essere «né ottimisti né pessimisti» ma dei pensatori critici, gli autori si chiedono «come resistere in questo mondo di bruti», dove le passioni tristi -l'impotenza e il fatalismo - non mancano di un certo fascino. La nostra epoca, crollato il mito dell'onnipotenza, rischia di farsi trascinare «in un discorso sulla sicurezza che giustifica la barbarie e l'egoismo e che invita a rompere tutti i legami.
Quando una società in crisi, per proteggersi e sopravvivere, aderisce massicciamente e in modo irriflesso ad un discorso di tipo paranoico é la barbarie che bussa alla porta. I problemi dei più giovani sono il segno visibile della crisi della nostra cultura fondata sulla promessa del futuro come redenzione laica. Si continua ad educarli come se questa crisi non esistesse, ma la fede nel progresso è stata ormai sostituita dal futuro cupo, dalla brutalità che identifica la libertà con il dominio di sé, del proprio ambiente, degli altri.
Tutto deve servire a qualcosa e questo utilitarismo si riverbera sui più giovani e li plasma. Gli autori prendono le distanze da quelle pratiche psicoterapeutiche orientate a far raggiungere ai pazienti un certo grado di autonomia, cioè a rendere le persone più libere per poter dominare il proprio ambiente, le relazioni, il corpo, gli altri... Propongono una cura orientata a conciliare la persona con il proprio destino e con la dimensione della fragilità insita nella condizione umana.
Assumere il proprio destino anziché vincerlo ed entrare nella fragilità (che non è né forza, né debolezza, ma rappresenta la complessa e contraddittoria molteplicità da assumere nel suo insieme) «significa vivere in un rapporto di interdipendenza, in una rete di legami con gli altri. Legami che non devono essere visti come fallimenti o successi, ma come possibilità di una vita con divisa» Per uscire da questo vicolo cieco occorre riscoprire la gioia del fare disinteressato e del piacere di coltivare i propri talenti senza fini immediati.
E' un invito rivolto a tutti, ma che assume preciso valore terapeutico per quanti, professionalmente, sono chiamati a rispondere al disagio giovanile.
Il volontariato può aiutare molto le persone a ritrovare se stesse: a non rincorrere le stelle, che sono lontane e irraggiungibili nel cielo infinito, ma ritrovare il piacere di vivere secondo la propria condizione, senza rincorrere i falsi miti ma contribuendo anch'essi alla costruzione di una nuova società solidale, dove non conta arrivare primi, ma arrivare felici.
Il Presidente
Giorgio Groppo