- 11 gennaio 2014, 11:01

Le feste al tempo delle mele

”Sabato non ci sono i miei, facciamo una festa a casa mia… puoi venire?”

   ”Sabato non ci sono i miei, facciamo una festa a casa mia… puoi venire?” Gli ormoni cominciavano ad abbracciarsi e a darsi una pacca sulla spalla. Una festa a casa di Luisa senza i genitori era un po’ come fare il coast to coast, un viaggio dove tutto poteva succedere. Gli altri invitati erano i compagni di classe delle medie più qualche amico del cortile o dell’oratorio. 

Alle quattro in punto ci si trovava sotto casa, per salire tutti assieme e non fare troppo rumore per le scale. Le feste quasi sempre duravano fino alle sei e mezza massimo sette, ora in cui ognuno doveva rientrare per cena. Luisa aspettava sulla porta. La stanza della festa di solito era la propria cameretta, quella al fondo del corridoio stretto e lungo. A volte i genitori mettevano a disposizione la “sala”, quella che restava chiusa per buona parte dell’anno in attesa degli ospiti. In un angolo, sopra al tavolino, si intuiva già l’aria di trasgressione sottolineata dagli immancabili Cipster e dalle bottiglie di Coca Cola. Poi panini semidolci con il salame, vasetto di Nutella e arachidi salate, roba forte. Dimenticavo. L’aria di trasgressione era sottolineata anche e soprattutto dalla tapparelle abbassate già alle quattro di pomeriggio, che creavano quel semi buio modello discoteca. Infatti, appena tutti si era sistemati partiva la musica e si iniziava a ballare. La faceva da padrone il mangiacassette perché si potevano creare delle compilation, registrate dalla radio, con le canzoni più belle del momento (apro una parentesi: perché il d.j. della radio iniziava sempre a parlare prima della fine del brano e ti obbligava a interrompere la registrazione sul più bello?). 

Non mancavano mai anche le tre lampadine psichedeliche colorate che si accendevano con il ritmo della musica, una per angolo oppure impilate sul cubotto nero accanto al registratore. Ad un certo punto qualcuno diceva quella frase, quella che faceva fare un tuffo al cuore: “Giochiamo a bottiglia?”  In un secondo si era tutti seduti per terra, in cerchio, a decidere le penitenze: bacio, carezza, schiaffo … e mentre quella bottiglia girava si scatenavano delle tempeste di turbamenti e di eccitazioni che solo chi ci ha giocato negli anni delle medie può comprendere. 

Dopo “bottiglia” il clima era pronto: iniziavano i lenti. Era il momento di Billy Joel con “Honesty”, Phobe Cates con “Paradise” e ovviamente il leggendario Richard Sanderson con il brano “Reality” del film “Il tempo delle mele”… ballare quelle musiche con le mani sui fianchi delle compagne di classe, a volte attorno al collo, con gli occhi chiusi, non aveva prezzo. Momenti memorabili, troppe volte interrotti bruscamente: “Luuisaaaa… siamo noi… siamo rientrati prima!! Dove siete?”  Tapparelle che si sollevano in un attimo, mani che finiscono in tasca, ormoni che si suicidano … che bella improvvisata, genitori di Luisa!

        

          

Valter Castellino