Decidere di trascorrere le proprie vacanze estive in terra di Puglia ma snobbare il decantato Salento in favore d’un Gargano meno commerciale e forse per questo più appetibile; fiaccati da una dieta preventiva a base di pasta in bianco e rum che rivela ormai universalmente la propria idiozia culinaria svegliarsi all’alba e, prelevata la propria ragazza, direzionare la di noi quasi magrezza con adipe alcolica a chilometri ottocento di distanza tarantolati da trulli e taralli.
Dopo il check-in in hotel vista-mare candido come la coscienza di Santa Teresa D’Avila, lasciarsi iodare dall’aria veloce che increspa le onde pubblicizzate da troppa cinematografia di sinistra quindi farsi fregare, per una volta turisticamente, da un butta-dentro milanese naturalizzato foggiano e spendere euri centodieci per mangiare pesce crudo masticando grani d’arena a rischio salmonellosi.
Rientrare nell’albergo diffuso a denti stretti serpeggiando fra fichi d’india e piante grasse affamati come Cristo nel deserto ma senza suo padre quindi dirigere l’auto verso Peschici e lì, dietro una collina bistrata dalla macchia mediterranea con pini stortati dal vento, allibire di fronte al Lego di case bianche con finestre incendiate dal tramonto sulla diagonale cobalto del mare. Affascinati dal contrasto del borgo calcinato tra i flutti visitare le viuzze dalle alte scale e dai bassi balconi intasate di ballerine di pizzica sotto un cielo serigrafato dai fuochi d’artificio per gustare una coppa di Primitivo a quindici gradi in un’enoteca a picco sulla carta-roccia del porto resistendo fisicamente ai venditori ambulanti di peperoncino e odori e al miraggio di negozietti stipati di gadget e di bottiglie di limoncello aggrovigliate come intestini.
Impiegare minuti numero venti per smarcarsi da turisti e danzatori quindi districarsi nel traffico sudamericano e dopo un’ultima occhiata al presepe che sembra un plastico costruito da un marinaio romantico e meravigliosamente ignorante scovare al fondo d’una sterrata a rischio coppa d’olio un ristorante in legno edificato affianco all’antica struttura d’un trabucco garganico. Entrare, forestieri, nel folkloristico ambiente e trovare sindaco e parroco insieme desinanti nel vuoto infrasettimanale come nell’affresco post-bellico d’un Guareschi pugliese quindi, privati del consumistico menu, scendere scortati dalla coppia di gestori fino al ragno di legno che tesse la sua rete in mare e presiedere alla rudimentale pesca per poi scegliere due orate d’argento vivo in scaglie.
Concordarne condimento e cottura con la cuoca obesa e guadagnare un’occhiata di disgusto dal prete pronunciando “orata et labora” mentre si spolpa tale delizia in cartoccio con patate al forno, sentendosi risarciti del furto mattutino e rinfrancati dal vino, fermo come il Pil nazionale dell’ultimo decennio.
(continua…)