Fissando il cameriere dall’inequivocabile passato agricolo prepararci il terzo caffè d’un mattino che non ha ancora conosciuto le nove lasciare liquefarsi in bocca zappole numero tre quasi senza masticarle cogli occhi al cielo che va rimettendosi come un peccato sciolto nell’impossibile blu di questa parte di Puglia.
Indossare la nostra t-shirt preferita (“Holy shit! I’m not a fucking tourist!”) e scegliere di passare l’ultimo giorno di vacanza a Vieste, la perla del Gargano, pur se intimoriti dall’alone commerciale che la circonda e che potrebbe consegnarci ad un diluvio di scandinavi scottati dal sole e possibili acquirenti del Colosseo in un film di Steno ma accettare la sfida caricando nel portabagagli un sifone di limoncello grande come il polmone d’un trombettista di colore.
(Vi)esterefatti, non appena arrivati in città, dal monolite pedemarino detto “Pizzomunno” alto venticinque metri e mitico simbolo del dolore dell’omonimo giovane cui le sirene strapparono, gelose, la donna del cuore, bere spritz on the rocks on the beach scheggiandosi i molari col mais tostato quindi ascendere alla città vecchia sedotti dalla sede della Marina Militare, già castello sveviano, che sembra un incrocio fra la Fortezza Bastiani ne “Il deserto dei Tartari” e una torre-vedetta ne “Il signore degli anelli”.
Pranzare in uno dei ristoranti pensili dislocati lungo la scala di pietra che taglia longitudinalmente la città su un traballante tavolino esposto allo scirocco gustando tagliata di manzo con rucola e aceto balsamico e bevendo vino farlocco servito da un oste figlio d’un assessore e nipote d’un cardinale che ci osserva al momento del conto come Gatto Silvestro con una piuma di Titti in bocca quindi, augurando a lui e alla sua discendenza gastriti a grappolo, centellinare sambuca in un bar del centro storico fissando allibiti un’emorragia di bimbi biondi da una scuola al suono della campanella che fa sembrare quello scorcio normanno una rèclame della gioventù hitleriana se i nazisti avessero vinto la guerra.
Infine, anti-turistici, ripescare un appunto lasciatoci dal cameriere ex-agricoltore su un ristorante dell’interno “stupefacente” dal punto di vista culinario quindi guidare di sera per chilometri numero trenta nella più totale oscurità abitata da fantasmi d’ulivi con in testa il jingle caparezziano (“…vieni a ballare in Puglia, Puglia, Puglia, dove la notte è buia, buia buia…”) ora finalmente chiaro e nelle orecchie il pianto agorafobico della di noi fidanzata. Scovare, gufeschi, il casolare riadattato a ristorante, quinta neorealista o ideale set d’un horror di Pupi Avati, ed entrare ordinando il menu degustazione a due camerieri minorenni più in nero d’una falange dell’ISIS.
Seduti fra coppie ad un enorme tavolo patriarcale di fronte ad un camino, sorretto da cariatidi, che ospiterebbe una Smart, consumare olive nere, verdi, con scorze d’arancia, piccanti, giganti, dolci, vestite di peperoni, un tris di primi con pasta fatta in casa, verdure fritte e arrosti fumanti con dolce finale e crostata casalinga in omaggio. A quel punto scuotere il capo alla generosità deamicisiana d’uno dei camerieri nel lasciare, incautamente, limoncello, grappa e nocino sul tavolo in bottiglie da un litro cadauna senza limiti d’erogazione e servirsene un quantitativo bastevole a sedare un’intera tavolata d’uno sposalizio zingaro per sgranare gli ormai molto piccoli occhi di fronte a un conto a dir poco ridicolo, vista anche l’appena avvenuta desertificazione del bar.
Dopo aver lasciato più un risarcimento danni che una mancia impiegare ore numero due per coprire i trenta chilometri di ritorno guidando sbronzi come una pubblicità progresso alla rovescia.