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Attualità | 14 febbraio 2021, 20:05

La recensione: L’adolescenza della notte è il giorno

L’erotismo, a tratti lirico, a tratti animale nel senso incorrotto del termine, percorre questa raccolta senza il valore consolatorio che gli attribuiva Pasolini (in riferimento alla miseria) ma con una sorta di esercizio mistico di abbandono che consente al demiurgo di liberarsi di sé.

La recensione: L’adolescenza della notte è il giorno

Dopo una vita spesa in versi è più che giusto elaborare un sommario, anzi un dizionario, e Iuri Lombardi, saggista, scrittore, poeta e drammaturgo si da alla tassonomia delle proprie notti che si dilatano fino a riempire l’intera pagina esiliando il giorno.

L’erotismo, a tratti lirico, a tratti animale nel senso incorrotto del termine, percorre questa raccolta senza il valore consolatorio che gli attribuiva Pasolini (in riferimento alla miseria) ma con una sorta di esercizio mistico di abbandono che consente al demiurgo di liberarsi di sé.

Di questo (dis)farsi del soggetto si nutre la poesia di Iuri (“la poesia è un modo per non esserci”) che oppone ai “grilli parlanti” delle istituzioni tutte, più o meno democratiche, la propria estraneità, di fede radicale, in grado di immergersi nella realtà senza scadere nella denuncia sociale o nella dichiarazione d’intenti politici.

Suddiviso in quattro parti (scriverei stagioni) “Il dizionario delle notti” è un’opera postuma per un’infinita serie di motivi: si rivolge a chi è stato e a chi sarà; non abbraccia alcun compromesso stilistico ammiccando a una crisi contingente che rischia di trovare una cura, e si sa che dalla poesia non si può guarire; nel tradurre la realtà in versi l’autore sembra consegnarci un nuovo mondo che in realtà è solo un nuovo modo di guardare il vecchio; infine c’è qualcosa nella non solennità di questa raccolta, come una pietra miliare che si riscopra lapide visto che ogni viaggio è immobile e in tutti i suoi pellegrinaggi il flâneur  sembra finire in una stanza, al punto che persino la strada diviene “una Via Lattea scesa in terra” e gli alberi sorreggono il cielo come stipiti.

Cineasta e profondo conoscitore del mondo editoriale Iuri sa che la scrittura è esercizio di sopravvivenza e che questo miserabile e antichissimo mestiere non va confuso con la sopravvivenza in senso lato, appannaggio d’una maggioranza che sa e deve conservare, laddove l’artista vive solo estinguendosi in bellezza.

Le coordinate del Dizionario sono l’amata Lucania, terra estrema che il Nostro conosce molto bene, la Firenze che ne custodisce la giovinezza come uno scrigno dalla serratura difettosa e la Roma che non può più essere considerata una capitale ma “l’evidente di una bellezza paleolitica”. Soprattutto quando il linguaggio s’impenna e diviene vorticoso, coi simboli che si affastellano come icone bizantine, la città amata dal poeta friulano de “la Religione del mio tempo” si fonde a quella cantata da Dario Bellezza in una fuga d’amplessi e angiporti che ricordano più il Belli che la Trastevere byroniana.

Le romanelle dentellano un cielo eternamente primaverile, mutevolmente attraversato da nubi di passo, piogge brevi e incessanti introducono arcobaleni e tramonti di rara bellezza mentre “cantano i primi grilli al Pincio o ai Fori” ma questa Roma “a due passi dal Sud” è l’eterno meridione dei poeti coi muri imbiancati a calce e gli stenti orti confinanti con l’immensa metropoli dove le rovine ospitano diosperi sanguinanti e baracche di bandone.

Iuri prende in prestito sbiaditi archetipi della modernità e li trasforma in intimiste metafore della propria condizione esistenziale; migrante senza patria né destinazione colleziona mancati appelli e destini non pervenuti consapevole che ogni fine è l’inizio di qualcosa e che solo nell’individualismo è possibile non la salvezza ma l’epicureismo: “la società si intromette sempre;/ quando non ci cambia ci estranea:/così il Noi è cannibalizzato.”

In un Aprile “futuro” e “più crudele” (tra Pasolini e Eliot) la Primavera condensa in sé tutte le stagioni grazie al senso di effimera rinascita che imprime alle superfici di vetro di questo Dizionario mentre la controra “col sole nero di vino” sagoma quinte dietro cui si nascondono gli amanti il cui gesto definitivo si sottrae alla vita poiché “sottrarre è un atto d’amore quanto dare”.

Amico o comparsa femminile c’è un “tu”, un ideale interlocutore, cui Iuri fa riferimento spesso usando l’imperfetto che è il tempo del Barocco e istituisce intimità condivise ma a volte sono istantanee figurative a illuminare la pagine come flash fotografici: “e nulla accade:/ sulla soglia due bambini” o: “ una sagoma con l’ombrello aspetta”.

A differenza del canto sepolcrale che è chiuso in una dimensione puramente fisica il Requiem abbraccia un discorso morale e in questa sorta di Lacrimosa mozartiano Iuri fa “risorgere se stesso dalle faville” per essere giudicato eppure la sua veglia funebre non facilita l’accesso al Paradiso né dona al suo spirito l’eterno riposo.

Il suo è il peccato più grande, quello di cercare di tradurre la vita in versi e chiunque discenda in questo Inferno, come il Cristo di Rilke, non enumera solo le notti ma è profondo “conoscitore dei suoi martìri” (l’accento va sulla i).

Da tale catabasi non c’è ritorno né resurrezione ma solo la certezza d’essere nati, nietzscheanamente, postumi: “noi a nulla apparteniamo e dell’età industriale siamo comunque il dopo”.

 

 

Germano Innocenti, Città di Castello, febbraio 2021.

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