Dal 7 agosto 2025 entreranno in vigore i dazi al 15% per i vini europei destinati agli Stati Uniti. Lo stabilisce l’Executive Order pubblicato dalla Casa Bianca, che non prevede eccezioni per il comparto enoico. Una misura che rischia di colpire al cuore uno dei settori più simbolici dell’export italiano.
Il nostro Piemonte sarà tra le regioni più colpite dai dazi di Trump, al pari di Veneto e Toscana.
Le ricadute in negativo potrebbero superare i 300 milioni di euro perché gli Stati Uniti rappresentano un mercato strategico, in modo particolare per Barolo, Barbaresco e Moscato d’Asti, quello che, con i prezzi più bassi, sembra possa subire i maggiori contraccolpi.
Gli Stati Uniti sono da tempo il primo cliente mondiale del vino italiano, con una quota del 24% sull’export totale.
I cugini d’Oltralpe, hanno già subito nel 2018 e nel 2020 gli effetti dei dazi americani con imposte extra del 25% che hanno portato a un crollo delle vendite del 36%.
Le ricadute, insomma, ci saranno e saranno forti per un settore, quello del vino italiano che aveva beneficiato fortemente, in passato, della poca simpatia di Trump per i francesi con vendite dei nostri nettari cresciute di oltre il 10% negli Stati Uniti.
Per i vini francesi l’ulteriore extra dazio del 15% porterebbe a un divario di prezzo del 45% tra i prodotti francesi e quelli americani.
Mentre scrivo questo Farinél sono in viaggio in Francia, in direzione Normandia e anche Oltralpe tiene banco il dibattito sui contraccolpi per il settore che brilla solo per lo Champagne e che arranca nelle altre denominazioni.
Il Comité Champagne, l’organizzazione interprofessionale della filiera che rappresenta oltre 16.000 viticoltori e 350 Maison, ha fissato la resa commercializzabile per il 2025 a 9.000 kg per ettaro abbassandola ancora una volta, come già successo nel 2024 (quando la quota fu 10.000 kg/ha) e nel 2023 (11.400 kg/ha).
Anche questa decisione sta creando malumore in un periodo di difficoltà e incertezze.
C’è chi sta ancora peggio, insomma, ma è una magra consolazione. “Se Atene piange, Sparta non ride” e questa situazione rischia di favorire nuovi mercati emergenti del vino, tra cui quello cinese.
Cosa possono fare i nostri produttori per fronteggiare un momento come questo in cui il settore enologico sembra essere esposto ad attacchi su più fronti?
Innanzitutto, continuando a fare squadra, cercando una via comune per uscire dall’impasse. Esplorare nuovi mercati è la via scelta da molti produttori ma può risultare una via tardiva, raffazzonata, che in ogni caso difficilmente riuscirà a colmare le perdite del mercato americano.
L’altra via, quella penso giusta per il settore, è puntare sull’unicità del territorio in cui viviamo e dei vini che produciamo. In un mercato sempre più globale e sempre più difficile, i consumatori cercano unicità ed esperienza. Penso si debba puntare sempre più sullo storytelling dei nostri nettari e della nostra terra, molto è stato fatto nel corso degli anni, ma trovo che ultimamente molti produttori si siano seduti un po’ sugli allori e questo, in un periodo come l’attuale può risultare veramente fatale.
La storia dell’affermazione enogastronomica del nostro territorio è unica e non ha eguali al mondo, è fatta di grandi personaggi, di storie che vanno raccontate alla collettività e che possono diventare un unicum in grado di essere più forte persino dei dazi di Trump.
Come scriveva Einstein: “Non pretendiamo che le cose cambino se continuiamo a farle nello stesso modo. La crisi è la miglior cosa che possa accadere a persone e interi Paesi perché è proprio la crisi a portare il progresso. La creatività nasce dall’ansia, come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie”.
Ripartiamo da qui, dalla comunicazione, dallo storytelling, nessuno ha una storia importante come la nostra da raccontare.





