- 26 novembre 2014, 07:45

Un casello abbandonato spesso è posizionato in prossimità di un binario morto

Un casello abbandonato spesso è posizionato in prossimità di un binario morto

Si chiamano “impresenziate”. Sono le vecchie stazioni considerate inutili, quasi 1.700 in tutta Italia, in stato di abbandono. Le Ferrovie dello Stato italiane, una volta tanto, hanno però lanciato una bella iniziativa: concederle in comodato d'uso gratuito o in locazione, a patto di garantirne la manutenzione, ma soltanto alle associazioni di promozione culturale ed enti no profit. Che ne possono usufruire come sedi per le loro iniziative per una durata che va dai 5 ai 9 anni.

Peccato che sono una persona fisica e non giuridica. Perché le stazioni mi hanno sempre affascinato. Sia che fossero in piena attività, che dismesse, abbandonate. Le prime brulicanti di vita, di gente, le seconde vuote di fantasmi.

Le stazioni della mia memoria sono principalmente due. Una grande, l'altra piccola.

Quella grande è a Torino, da poco totalmente rinnovata, rimodernata, così come richiedeva la sua nuova attitudine di città cosmopolita e di polo artistico-culturale. L'esterno però non è stato stravolto, cosicché Porta Nuova ha conservato la facciata risalente al 1864, un po' parigina, mi è sempre sembrata. Qui l'andirivieni è simile a quello che si può osservare negli aeroporti (altri luoghi affascinanti). Un campionario di volti, sguardi, movimenti. Provare ad indovinare se chi incrocio per un istante è una persona che arriva, che parte, se è un pendolare per lavoro, se sta per andare a trascorrere qualche giorno in vacanza, se il viaggio è di piacere, o motivo di innamoramenti tumultuosi (come nel film “Le temps de l’aventure” interpretato magistralmente da Emmanuelle Devos e Gabriel Byrne) oppure se si tratta di una trasferta per motivi luttuosi.

Come per Tazaki Tsukuru (protagonista dell'omonimo romanzo di Murakami) mi piace stare seduta sulle panchine, e guardare. Certo non proveranno lo stesso piacere le persone che sono costrette a quotidiani viaggi in piedi in vagoni stracolmi, maleodoranti, sporchi, alla continua mercé di orari impazziti. Ma i disagi non sono per colpa della stazione. Non sono le cose, sono le persone che li creano e guastano la vita di altre persone.

Quella piccola è la stazione di Ceres, in Val di Lanzo. Il prototipo della stazioncina di mezza montagna, a chalet, architettura retrò, boiserie, bigliettaio, piccolo bar. Essendo terminale, cioè i binari finivano lì e non andavano più da nessuna parte, da piccola mi sembrava che fosse alla fine del mondo. E mi piaceva anche perché potevo prendere il treno se pure ero da sola, non c'era possibilità di sbagliare fermata. Arrivava a Ceres, e stop. Si bloccava lì, nessuna fretta a scendere. D'altra parte era una località di villeggiatura, ed il relax iniziava appena arrivati, appena posato il piede sulla banchina.

Ogni volta, invece, che mi trovo a passare davanti alle “impresenziate” resto toccata dall'abbandono. Sono perlopiù piccole, di paese. Hanno un che di commovente, sono tristi eppure non si può fare a meno di immaginare la loro vita precedente, brulicante di vita. Che poi erano anche tanti posti di lavoro in più. Il capostazione, mestiere affascinante, che godeva di una certa reputazione, il bigliettaio, i dipendenti dell’immancabile caffè adiacente, la piccola edicola-tabaccheria. Un microcosmo sparito, senza possibilità di ritorno. Al loro posto, rovi, piante rampicanti, entrano ed escono dalle porte e dalle finestre aperte, i vetri squarciati, le imposte divelte. Non le demoliscono, le lasciano lì, a disintegrarsi lentamente, lasciando che sia il tempo a distruggere queste casette quadrate, come forse l'uomo non ha il coraggio di fare.

Ben venga dunque questa iniziativa delle FS. Tante stazioncine sono già state riconvertite in piccole biblioteche, case d'accoglienza, centri socio-assistenziali e culturali, rivendite di prodotti del territorio. Una nuova vita per le casette quadrate, che se lo meritano.


Monica Bruna

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