Rocky, Alex e Money sono tre giovani ladri d’appartamento che sfruttando il lavoro del padre di Alex (agente di sicurezza) riescono a penetrare nelle case e ad eseguire piccoli furti senza superare il tetto di diecimila dollari che significherebbe “furto aggravato”.
Quando si presenta l’occasione di derubare un veterano della guerra del Golfo rimasto cieco che ha ricevuto un notevole risarcimento finanziario per aver perso sua figlia in un incidente d’auto, il nodo morale si scioglie in pochi istanti di fronte alla concreta possibilità di lasciare la spenta Detroit per la retorica e dinamica California. Inizia la saga dei clichè che prosegue col background socialmente disastroso di Rocky (una bravissima Jane Levy) con un padre in fuga ed una madre violenta ed alcolista, il fidanzato Money testosteronico e impulsivo il cui destino è segnato dal nome e dal tatuaggio a forma di dollaro sul collo ed infine il romantico (e segretamente innamorato di Rocky) Alex, il più lucido dei tre che però non ha alcuno scrupolo ad andare fino in fondo pur di ottenere quel che vuole.
Non appena fatta irruzione nella casa il trio si renderà subito conto che il proprietario non è un inerme non-vedente distrutto dal dolore ma un ancora efficientissimo soldato esperto nel combattimento corpo a corpo che alla perfetta conoscenza della planimetria domestica unisce una crudeltà ben superiore alla loro.
Il film, girato con la steadicam e non con la handycam, per meglio rimarcare la fisicità paranoica dei personaggi, soprattutto nelle scene di buio assoluto dove il cieco bracca agilmente le sue vittime guidato da odori e suoni vista l’acutezza dei sensi rimastigli, è un horror claustrofobico che rimanda a capolavori tipo “la casa nera” di Craven ed ha un buon ritmo intervallato da colpi di scena ben dosati ma non supera lo steccato del prodotto di genere.
A parte due se non tre falle nella trama di cui non parlerò per evitare lo spoiler quello che delude nella struttura della pellicola è la totale assenza di approfondimento psicologico che rende i personaggi delle sagome di cartone vittime di pulsioni che non solo li dominano ma li definiscono integralmente.
E’ vero che l’originalità (se vogliamo usare questo termine) del plot sta nell’essenziale mediocrità di tutti i protagonisti disposti a sacrificare valori e sentimenti pur di ottenere un lasciapassare economico per una vita migliore o a vendicarsi su degli sconosciuti (per quanto rei di furto) per l’ingiusta morte d’una figlia ma già penne come Balzac o Flaubert si erano occupati di tale “banalità del male” in tempi di gran lunga antecedenti e con qualche sfumatura in più.
“Man in the dark” (titolo originale e di certo più pertinente “don’t breathe”, al punto che vorrei suggerire a chi cambia i titoli dei film americani di non trattare il pubblico italiano come una massa di ignoranti sedotti solo da frasi ad effetto) è un film americano che più americano non si può che sfiora tanti temi: dal degrado economico-lavorativo al dramma del reduce; dal desiderio di rivalsa d’una generazione resa cinica da un vuoto culturale colonizzato da una tecnologia che ha sostituito la velocità alla comunicazione, al limite (legale) della violenza come difesa della propria proprietà, o libertà, individuale.
Tutti nella pellicola sono al tempo stesso vittime e carnefici ma senza alcuna dignità intellettuale né l’eterodirezione del Fato che caratterizzava gli eroi della tragedia greca. Il vecchio soldato, che sembra la figura di quel bellissimo quadro di Munch (“l’uomo che passeggia di notte”) è la personificazione d’una cieca vendetta che non può chiamarsi né giustizia né catarsi e che non ha neanche il fascino assoluto della mostruosità.
Tutto in Man in the dark è perfettamente plausibile, persino la depravazione.
Prodotto da Sam Raimi e diretto da Fede Alvarez questo film sta andando benissimo ai botteghini e mentre il regista assicura di non aver voluto creare un franchise e quindi di non pensare a un sequel, prende anche le distanze dai tanti college movie proliferati negli ultimi anni in cui gruppi di bravi ragazzi precipitano in un incubo durante uno springbreak o una gita andata male, per la serie il sogno americano non viene distrutto perché è già andato in pezzi da un po’.
Non pretende, il buon Alvarez, di aver fatto un film originale ma solo nuovo visto che per lui il nuovo “è una ricombinazione di elementi da dosare come per le ricette dove con gli stessi ingredienti si possono fare diversi dolci”. Nel suo caso gli ingredienti sono “Cujo” e “Panic room” e chissà se avrà preso spunto anche da “Paura 3D” dei nostri Manetti bros; in conclusione “Man in the dark” è un buon horror che ridisegna in chiave paranoica il mitologema della casa privandolo dell’elemento soprannaturale e facendo dell’avarizia il minimo comune denominatore dei suoi personaggi.
Avarizia e non ambizione, vendetta e non espiazione, violenza e (come già detto) non catarsi, in quest’opera confluiscono tutti i migliori pregi e difetti del cinema hollywoodiano degli ultimi anni e cioè una maniacale ricerca di ritmo e un’accuratezza di dettagli che flirta con una fotografia sempre perfetta ma il tutto accompagnato da una povertà narrativa che impedisce all’atmosfera di creare quel fenomeno scaturente dal difetto che ha nome stile.
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