Schegge di Luce - 21 aprile 2024, 06:57

SCHEGGE DI LUCE / Pensieri sui Vangeli festivi di don Riccardo Frigerio

Commento al Vangelo del 21 aprile, IV Domenica di Pasqua e 61ª Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni

Gesù disse: «Io sono il buon pastore»

Gesù disse: «Io sono il buon pastore»

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,11-18).

  

Oggi, 21 aprile, la Chiesa giunge alla IV Domenica di Pasqua (Anno B, colore liturgico bianco), quando ricorre la 61ª Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. 

A commentare il Vangelo della Santa Messa è don Riccardo Frigerio, direttore dei Salesiani di Bra. Amore, vita, valori, spiritualità sono racchiusi nella loro riflessione per “Schegge di luce, pensieri sui Vangeli festivi”, una rubrica che vuole essere una tenera carezza per tutte le anime in questa valle di esilio. 

Pensieri e parole per accendere le ragioni della speranza che è in noi. 

 

Eccolo, il commento

La parola “mercenario”, che era sepolta tra i ricordi scolastici dell’età rinascimentale, è tornata a galla con il conflitto in Ucraina, su entrambi i fronti. Non se ne sentiva la mancanza, ma gli eventi ci consentono di focalizzare anche l’accezione meno “bellica”, quella di lavoratore stipendiato che non si prende a cuore il gregge e soprattutto non ha intenzione di sacrificare alcunché di se stesso nel caso che si presenti un pericolo. 

Il primo rischio nell’affrontare il tema è di svalutare a priori il suo servizio. Il mondo è pieno di persone che sono dipendenti di qualcun altro, che svolgono dignitosamente un lavoro su più turni, che ricevono uno stipendio per mantenere la propria famiglia, che rendono conto ad un padrone (si spera onesto). Quando la giornata finisce, possono lasciarsi alle spalle i problemi, dedicarsi a ciò che per loro conta davvero, nell’attesa più o meno fremente di tornare il giorno dopo. “Staccano” dal lavoro, perché questo non li coinvolge esistenzialmente, ma rimane uno strumento in vista di qualcosa di più importante. 

Anche il mercenario del Vangelo fa la sua parte: riceve l’ordine di condurre le pecore al pascolo, che siano quelle o altre non gli importa, deve solo far tornare i conti. Di fronte al lupo che incombe fa i suoi calcoli, se valga la pena rischiare o se attribuirà poi le perdite a forze soverchianti: magari il padrone non sarà contento, ma non sono affari suoi. Se la paga è di sussistenza e ci sono altre occasioni all’orizzonte, allora, persino l’eventuale licenziamento non sarà una tragedia.

Ora, se esaminiamo il Vangelo, Gesù si presenta come buon pastore, la figura del mercenario fornisce alcuni termini di paragone, ma è solo uno sfondo. Molto più profonde sono le implicazioni in positivo dell’autorivelazione di Gesù. Innanzitutto il pastore è buono (e bello, secondo i cultori del greco). La definizione di “buono” potrebbe implicare la continua preoccupazione di assicurare il meglio alle proprie pecore (in termini di pascolo, scelta dei percorsi, sicurezza); il rapporto intimo, uno a uno, con gli animali condotti, tenendo conto delle caratteristiche proprie di ciascuno (la più veloce, la più impacciata…) e conoscendole per nome, perché anche all’interno di un gregge le singole pecore hanno un’identità non intercambiabile; il coraggio di affrontare in prima persona (il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza - Salmo 22) il pericolo rappresentato da chi vuole impossessarsi delle pecore o peggio ancora semplicemente portare tragedie per il gusto del male; la gioia di sapersi ascoltato, perché la voce viene riconosciuta come Verità, in quanto non c’è interesse all’inganno e al tornaconto personale. 

Gesù è il buon pastore e non si distacca dalle sue pecore, che siamo noi. Esce al mattino verso il pascolo, accompagna il gregge, se ne prende cura. Dietro l’angolo ci sono i pericoli, i lupi, ma li affronta mettendosi in gioco fino all’ultima goccia di sangue. La conoscenza reciproca tra pastore e pecore (certamente Gesù ci conosce nell’intimo, noi balbettiamo il nostro amore per lui) consente la convergenza dei cuori, anche quelli dei singoli fedeli: Gesù al centro e noi non solo a raggiera, ma in un’intricata rete di relazioni che unisce tutti con tutti, perché l’amore è “diffusivum sui”. 

Nei secoli di storia della Chiesa e oggi in un mondo complesso e ricco di sfumature, le “altre pecore che non provengono da questo recinto” attendono la guida del pastore buono: non più come quando Gesù era in terra, ma attraverso i pastori che ricevono da Lui la missione di cooperare per generare nuovi figli di Dio. Gesù dà la vita di sua propria iniziativa (il Venerdì Santo resta ancora per noi un mistero nel suo significato più profondo) e questo è il segno più grande ed evidente per tutta l’umanità. 

I pastori sono chiamati ad assumersi la responsabilità di “pensare, dire, fare come Gesù”, perché moltitudini di uomini e donne sono già disperse e razziate da chi opera il male. Preghiamo in particolare per quanti (giovani e meno giovani) stanno cercando di comprendere la propria vocazione ad essere uno di quei pastori collaboratori del Signore. Nella 61ª Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, papa Francesco ci invita a «Ricordare con gratitudine davanti al Signore l’impegno fedele, quotidiano e spesso nascosto di coloro che hanno abbracciato una chiamata che coinvolge tutta la loro vita… penso a coloro che hanno accolto la chiamata al sacerdozio ordinato e si dedicano all’annuncio del Vangelo e spezzano la propria vita, insieme al Pane eucaristico, per i fratelli, seminando speranza e mostrando a tutti la bellezza del Regno di Dio». 

La Storia ci ha consegnato un popolo di Dio frammentato, che non può ancora celebrare “in unum” la gioia di essere gregge del buon pastore. Non dobbiamo mancare di speranza nel futuro, nonostante le nubi portate dalla situazione internazionale. Anzi, il Papa in vista del Giubileo 2025 ci invita ad essere «Pellegrini di speranza, perché tendiamo verso un futuro migliore e ci impegniamo a costruirlo lungo il cammino. Questo è, alla fine, lo scopo di ogni vocazione: diventare uomini e donne di speranza. Come singoli e come comunità, nella varietà dei carismi e dei ministeri, siamo tutti chiamati a “dare corpo e cuore” alla speranza del Vangelo in un mondo segnato da sfide epocali».

Silvia Gullino

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