Il tempo sta diventando la mia ossessione. Non quello meteorologico (sebbene di questo freddo senza fine non ne possa veramente più), ma lo scorrere delle ore, dei giorni, dei mesi, degli anni. Che diventa sempre più frenetico, a mano a mano che di spazio temporale a disposizione davanti a noi, ne abbiamo sempre meno. Ricordo che quando andavo a scuola non mi passava più. Le ore in classe, i pomeriggi a casa a studiare, le vacanze estive infinite, una serie infinita di minuti lunghi come quarti d'ora che ti cingevano fino a soffocarti.
Poi, dopo i vent'anni, una prima impennata. I giorni non duravano più così tanto, anzi iniziavano a farsi sempre più corti, e la percezione del tempo mutava, si mostrava sempre più esiguo, insufficiente, scarso. Perché tentiamo di far stare dentro a un contenitore troppo stretto una quantità di cose da fare troppo larga. E la vita moderna, paradossalmente, ha comportato ancora di più il restringimento del tempo percepito. Prendiamo internet, ad esempio.
Con internet tutto è diventato più veloce. La posta, le notizie, tutto a portata di un click. Schiacci un bottone ed ecco che ti arriva la risposta. E' questione di un attimo. Ma se gli attimi iniziano a farsi lunghi minuti, ecco che ci assale la frenesia. Il tempo scorre, veloce, diventiamo impazienti: perché non risponde, che diavolo sta facendo, perché non trovo quello che cerco? La velocità ha reso assurda l'attesa, alla quale nei tempi più remoti si era meglio abituati. L'inquietudine dell'aspettativa, la solitudine che ci attanaglia alla fermata dell'autobus, quando i minuti sembrano non passare mai, e la moltitudine della gente che a poco a poco si ammassa a dimostrazione visiva che già cinque, sei, dieci minuti sono passati e non siamo ancora saliti sul quel maledetto bus, quando a casa ci sono ancora tante cose da fare che ci aspettano...
Il tempo questo maledetto. Che comunque allevia – seppur senza cancellarle, le paure, le angosce, i lutti, i conflitti, i dolori. Una perdita lacerante si trasforma in una dolce convivenza con l'assente, perché la mente non riesce a soffermarsi troppo su un solo pensiero. Tante, troppe altre incombenze, grandi o piccole, rosicchiano i minuti, erodono le ore, smozzicano le giornate.
E se (per assurdo) ci rimane del tempo libero? Vogliamo non sprecarlo, quel poco che siamo riusciti a conquistare con fatica, ma non sempre è realizzabile. Possiamo usarlo per fare cose stupide, o per leggere un libro, o per vedere un film, o per stare mollemente sdraiati sul divano a guardare il soffitto, o per macinare chilometri per visitare un museo o una mostra, o per rimpinzarci di patatine fritte, o per telefonare a qualcuno che è tanto tempo che non si sente più, o per ascoltare una canzone, o per mettere lo smalto sulle unghie.
Con la sete di tempo che abbiamo, ci sembra quasi di sprecarlo, perché abbiamo perso i ritmi lunghi dei nonni, che assecondavano il trascorrere delle ore senza farsi troppi problemi, accettando l'”hic et nunc”, come doveva essere, ed era.
E, alla fine, “ricordatevi che il tempo vola. E noi no. Ma il peggio sarebbe se noi volassimo e il tempo no. Il cielo sarebbe pieno di uomini con gli orologi fermi”(Alessandro Bergonzoni, La cucina del frattempo, 1994).



