Si è rischiato grosso. La castagna di Cuneo IGP, che viene coltivata tra le Alpi Cozie e le Marittime, poteva scomparire per sempre dai boschi cuneesi. Per alcuni anni, infatti, gli alberi sono stati sotto attacco del parassitoide “cinipide galligeno” che è stato vittoriosamente combattuto da un altro parassitoide nemico, il “torymus sinensis”. E che autunno sarebbe stato, allora, senza i Mundaj (qui da noi a Cuneo, altrimenti dette Brusè a Parma Callarosta a Viterbo, Frugiata dalle parti di Bologna, Mondina in Versilia, Rustìa in alcune zone della provincia di Genova, Bruciata tra Firenze e Siena, Biröll dalle parti di Milano e Como, Boröla a Bergamo, Riggiola, Nserta o Ruselle in quel di Cosenza e dintorni, ecc. tanto per citarne solo alcuni), che mi rimandano sempre, ogni volta che li vedo, alle caldarroste che mangiavo da piccola.
Raramente le si comprava già belle che pronte in strada. Dava molta più soddisfazione cucinarle a casa, di solito dai nonni. Era quasi un rito. La preparazione iniziava, dopo che le castagne erano state lasciate stese ad asciugare, se raccolte nei boschi, incidendo la buccia con il coltello. Operazione che ai bambini non sempre era concessa. Poi la parte più bella, la cottura nella padella coi buchi, meglio se fatta al fuoco di un camino o sul putagè, con gli immancabili scoppiettii sempre molto apprezzati da noi più piccoli, che assistevamo all’operazione. A cottura ultimata, si versavano dentro ad un vecchio strofinaccio, per tenerle calde e croccanti. Qualche istante ancora e arrivava la goduria. Prendere, preferibilmente non a casaccio, la castagna più grossa, meglio cotta e più facile da pelare. Il crack della buccia che si rompe, le punta delle dita bruciacchiate e annerite, ed infine il mastichìo veloce per non ustionarsi anche bocca e lingua. Sublime.
Un po' meno sublimi, secondo il mio gusto, erano le castagne bollite. Mi facevano tristezza. Erano dimesse, grigiastre, da malatini sdentati: le parenti povere delle caldarroste. E ci potevi trovare molto spesso il vermetto dentro, lesso anche lui, che faceva più impressione del vermetto secco, che anzi a volte manco lo notavi perché totalmente abbrustolito e te lo trangugiavi senza neanche accorgertene.
Crescendo, si scopre poi che le castagne non si declinano solo in arrostite o bollite. Con la farina si possono cucinare un'infinità di cose, focacce, pani. Le si possono accompagnare a carni (vedere ad esempio la ricetta dei bocconcini al Raschera e marroni sul blog dell'amica Federica Gelso Giuliani ) e polente, risotti, minestre.
Senza tacere dei dolci: il Montblanc, (gustato senza fare il “tunnel” come giustamente ammonisce Nanni Moretti nel film “Bianca”) un po' stucchevole per me amante del salato; o il castagnaccio, una torta dimessa, sottile, non scenografica, dal gusto delicato, col pinolo che ti ritrovi a sorpresa in bocca, non invasivo eppure eccolo che si rivela essere il giusto completamento.
Infine il Marron Glacè, l'apoteosi del dolciume. Quasi nulla al mondo ha un così alto tasso di zuccherosità. Un capolavoro da vedere, un piacere assoluto da gustare. Per chi vorrebbe ma non può, è comunque consentito l'acquisto delle confezioni con i marron rotti, gli “scarti” di lavorazione, più economici, ma ugualmente buoni.
Ancora un’ultima considerazione: perché a Roma le caldarroste che si vendono per strada hanno cifre che andrebbero bene per le gioiellerie ?




