M. e I. sono sorelle. Gemelle. Identiche. Bionde, occhi blu, vestite da marinarette hanno all'incirca sette anni, sono serie come le bambine bene educate davanti all'obbiettivo del fotografo. C. la terza sorella, di poco più grande, capelli scuri e viso da bambola, ha un sorriso appena abbozzato, quasi smaliziato.
Lo sguardo della madre, dal vestito lungo e nero, non riesce a nascondere cupi pensieri. Eppure si sforza, eccome, di avere un'aria rilassata e tranquilla. Si deve essere preparata quella faccia da giorni forse, fino al momento che il fotografo ha spiegato a loro tre come dovevano stare esattamente, ferme e concentrate. Farsi fare una fotografia è ancora una cosa seria, che prende tempo e denaro. Si fa per occasioni importanti, anche solo una volta l'anno. Pochi posseggono macchine fotografiche, apparecchi che usano principalmente i professionisti nei loro atelier. Si prende appuntamento con giorni d'anticipo, ci si prepara con precisione nella scelta del vestito, dell'acconciatura, fino all'espressione, importantissima, fondamentale. Che di norma deve essere seria, al massimo gli occhi possono sorridere un po', ma non troppo. Niente lingue fuori, boccacce, sguaiataggini cui siamo abituati e assuefatti oggi per colpa della tecnologia digitale. Sulla cartolina poche parole. Sua moglie gli dice "fatti coraggio", e poi si scusa che lei non e venuta tanto bene in quella foto: "guarda che faccia", gli dice.
Ora, questa foto per la donna e le sue tre figlie è di fondamentale importanza. Farà tanta strada, andrà lontano, cosi lontano quanto non avrebbe mai neppure saputo immaginare. Lui, partito soldato alle soglie dei quarantanni -come dire un quasi cinquantenne di oggi- lasciata la famiglia, verso luoghi, e con uomini distanti da lui in tutto. Per le sue abitudini, per la sua mentalità. E' un piemontese: chiuso, riservato, rigido, di poche parole. Parla poco l'italiano, la sua lingua è il dialetto, si ritrova con soldati che per lui sono stranieri, anche se arrivano da poche decine di chilometri. Un'altra provincia, un altro mondo. E i meridionali? No, quelli non li capisce affatto, ma non importa, tanto lui non parla quasi con nessuno.
Neppure quando sarà tornato a casa, perché fu fortunato a non essere contato fra i 650.000 morti italiani, tutto intero, con la foto delle sue donne in tasca, cambiate, le bambine non più bambine, la moglie consumata, parlerà della sua guerra Poche parole, alcuna lamentela, la vita doveva andare avanti. Ma conservando in una vecchia cassapanca quanto gli era rimasto al ritorno a casa: elmetto, le fasce, la casacca, ricordi di anni in trincea.
Una delle gemelle, mia nonna. I suoi genitori, i miei bisnonni.
Ad un secolo esatto dalla Grande Guerra, centinaia, migliaia di memorie come questa riecheggiano al MART di Rovereto che fino al 20 settembre 2015 dedica una grande esposizione dedicata alla Prima Guerra Mondiale. Fu "La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente." (Bertolt Brecht).
L'allestimento, curato dal designer catalano Martí Guixé, accoglie installazioni, disegni, incisioni, fotografie, dipinti, manifesti, cartoline, corrispondenze, diari del passato, reperti bellici degli anni di guerra, affiancati a opere di artisti contemporanei. Occorre attrezzarsi, arrivare a Rovereto con l'animo predisposto. Perché l'angoscia assale già nella salita del museo. Scritte sui muri tratte dai diari di trincea (morte-fame-freddo) ti attanagliano, e non ti lasciano più. L'orrore che fu è anche, identico, a quello delle guerre di oggi.
Il disagio più profondo lo si prova visitando le sezioni dedicate alla vita famigliare e domestica. Emozionanti i giocattoli di primo Novecento che al nostro occhio di posteri hanno perso ogni gioiosità, diventati ormai oggetti inquietanti, tristi. NON da bambini.
Poi, usciti dal museo, ci si ritrova in mezzo a quelle montagne che trasudano memoria di poveri uomini mandati a morire nelle condizioni più disumane in quegli anni, 1915-1918, dopo i quali le guerre persero per sempre quella (ipocrita) patina di epicità.




