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| 03 febbraio 2016, 09:16

Mi faccio male per stare meglio

L'autolesionista è un po’ come un pittore di se stesso: non dipinge il suo dolore sulla tela, ma che preferisce mostrarlo suo stesso corpo, per poi provare sollievo

Mi faccio male per stare meglio

Il cutting (tagliarsi con lamette, coltelli, forbici) e altri comportamenti (bruciarsi con le sigarette, battere la testa contro i muri, graffiarsi, tirarsi i capelli) sono azioni messe in atto dagli adolescenti e dai giovani di età compresa tra i 11 e i 25 anni che deliberatamente si fanno male per superare disagi che provano.

Alcune stime ipotizzano che il 10% degli adolescenti tra i 13 e i 16 anni, dunque oltre duecentomila adolescenti, lo fanno. Sono comportamenti messi in atto sia dalle ragazze che dai ragazzi, ma con una maggiore incidenza tra le ragazze. Nel 70% dei casi si tratta di un fenomeni legati all'età e alle difficoltà del periodo adolescenziale, ma nel 30% dei casi si rischia la cronicizzazione. Negli ultimi anni, poi, con la grande diffusione dei social, siti di condivisione e blog, il fenomeno di emulazione è cresciuto del 30% e solo una minima parte dei ragazzi chiede aiuto.

I tagli e le lesioni sono solitamente nascosti da abiti lunghi e bracciali. Ma attenzione: anche se i ragazzi fanno di tutto per nascondere quei segni coprendoli, l'autolesionismo è un gesto contro di sé che vuole parlare agli altri: un grido d'aiuto. Infatti, recenti studi, ritengono che i ragazzi si facciano male apposta per attirare l'attenzione.

L'autolesionismo, piuttosto che un modo per togliersi la vita, è un meccanismo di sopravvivenza per superare crisi, traumi, dolori, per gestire il dolore causata da varie situazioni: bullismo scolastico, difficoltà di relazione con i genitori e gli amici, delusioni amorose, lutti. Il dolore emotivo provato dai giovani è sostituito dal dolore fisico: questo provoca sentimenti come l' euforia, il fascino, calma relativa e sollievo vivo. I ragazzi pensano che questi comportamenti aiutino a sentire di avere un controllo di qualcosa nella loro vita, cosa che normalmente non riescono ad ottenere. I segni sul corpo, le ferite che raggiungono profondità diverse, sono un disperato tentativo di mostrare agli altri come si sentono, e chiedere aiuto.

Solitamente le ferite vengono fatte vedere ad amici e “fidanzati”, condivise sui social; mentre i genitori solitamente scoprono in maniera casuale tagli e lesioni. Farsi male diventa un rito ipnotico e catartico. Il coltello che scava nella pelle, la vista del sangue, la ferita che diventerà una cicatrice e dunque un trofeo: volgono il coltello contro se stessi quando ci si sente impotenti di fronte ad un dolore, un sopruso, una delusione. L’autolesionista non si piace, non ha fiducia in se e neppure negli altri, presenta frequenti sbalzi di umore.

Molti degli autolesionisti tendono a essere perfezionisti, incapaci di gestire e di manifestare verbalmente intense emozioni. Dove è tutto il disagio interiore, il malessere che non si è in grado di gestire? È nella sofferenza fisica, quindi in quella facilmente gestibile e più reale, rispetto alla sofferenza emozionale che è impalpabile.

Quando ci si taglia, si gode nel vedere il proprio corpo messo nella nostra stessa situazione di sofferenza e difficoltà, con l’eccezione però che le ferite guariscono e spariscono, alcuni senza lasciare traccia, altri invece lasciando dei segni. Per un po’ ci si occupa solo del dolore fisico, distogliendosi temporaneamente da quello interiore…..e poi restano i segni che apprezziamo perchè ricordano una guerra.

I ragazzi associano inconsciamente la risoluzione del loro malessere psicologico in qualcosa di fisico, trasportando il dolore emotivo il dolore fisico. L'autolesionista è un po’ come un pittore di se stesso: non dipinge il suo dolore sulla tela, ma che preferisce mostrarlo suo stesso corpo, per poi provare sollievo.

Chi si ferisce volontariamente si trova in una condizione di “solidificata” delusione: i problemi che non si riesce a risolvere nella mente, sono tradotti in sangue e dolore fisico, che poi passa. Ma in maniera ambivalente e distorta l’autolesionista sente il bisogno di mostrare agli altri che sta davvero soffrendo, offrendo loro qualcosa di concreto e di comunemente accettato come “dolore”: le cicatrici sulla pelle diventano il modo di rendere visibile esteriormente la sofferenza che si ha dentro, è un modo per comunicare agli altri il proprio dolore.

Il dolore fisico è prova che si è vivi, anche se si sta troppo male dentro.

Ernestina Fiore

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