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| 24 febbraio 2016, 08:16

La Barbie: per essere modella la prendevo a modello

Disegno di Danilo Paparelli

Disegno di Danilo Paparelli

bombolotte bionde filiforme e caucasiche, ecco le Barbie in carne (curvy), “stangone” (tall) e “tappe” (petite). A immagine e somiglianza di bambine non perfettine (ma senz'altro più simpatiche) della ormai cinquasettenne bambola.

La mia prima Barbie fu Ricky, prodotto dalla Mattel per solo un paio d'anni, fino al 1967, che mi avevano comprato i miei genitori alla Rinascente di Milano. Si trattava di un ragazzino dai capelli rossi in tenuta da spiaggia: casacchina, costumino e ciabattine. Nella articolata famiglia di Barbie risultava l'amico (o boyfriend?) di Skipper, la sorella minore.

Da bambina non ero il tipo da bambole, per quello mi avevano comprato un bambolotto maschio. A seguire, però, arrivarono le Barbie vere e proprie, probabilmente perché i miei ritenevano che se non ne avessi posseduta almeno una sarei rimasta molto bassa nella scala di popolarità fra le bimbe in età scolare. Restava il fatto, però, che continuavo ad essere abbastanza indifferente al fascino della bambola. Un po' perché aveva le gambette secche e lunghe come le mie, che non mi piacevano per niente, un po' perché il bello (a chi piaceva) stava nel pettinarla, vestirla e farle fare la gattamorta. Io ero un maschiaccio, quel tipo di cose non mi interessavano.

Le bambine “frou frou”, che a volte dicevano: “la mia BarbiE” , pronunciandone il nome per esteso come si scriveva, collezionavano vestiti e accessori. Come il camper e la casa, soprattutto, che rappresentava il non plus ultra del regalo natalizio di quegli anni. Se non ce l'avevi eri considerata quasi una poveraccia (“Oh, poverina, i suoi non le hanno comprato la 'casadibarbiE'”), ma a me non importava, non l’ho mai desiderata.

Quindi in tutto, ho avuto due Barbie, una bionda e una (secondo me molto più bella) bruna. Oltre a Ken, e ad altri ometti che erano stati regalati a mio fratello. Come “l’amico Jackson” un tipo abbronzato vestito con una tuta tipo meccanico, snodatissimo, e che precedette di poco il più famoso Big Jim. Ai due facevamo fare a botte tutto il tempo, e di solito aveva la meglio Jackson, anche se più piccolo di Big Jim, perché era meno rigido. E poi c’era la “Famiglia Felice”: tre bambolotti, sempre della Mattel, ma meno fashion. La mamma, il papà, e il bebè. Con la caratteristica di avere i capelli sempre sparati in testa e di essere più piccoli di statura delle Barbie. Ma decisamente peggio era la sua versione economica italiana: Tanya (con la “y” che la rendeva ancora più deprimente) che godette, nonostante tutto, di una tale successo da restare in produzione per una trentina d’anni.

Nonostante non fossi un’appassionata dell’omonima bambola, il gioco da tavolo “Barbie reginetta del ballo” è rimasto per tanti anni la mia passione. Il traguardo era riuscire ad arrivare, tirando i dadi e avanzando di casella in casella, al ballo dotate di vestito e boyfriend. Una vera e propria “americanata”, che però mi prendeva: guadagnare soldini facendo la babysitter, ricevere l'anello plasticoso a forma di cuore dal tuo fidanzatino (a scelta fra Ken, banale, Alan, insignificante, Bob, lentigginoso e carino e il mio preferito, l'occhialuto Tom), scegliere l'abito del ballo e arrivare trionfante alla festa. OOOhhh!!!!

Ma la simil-barbie più brutta e trash è stata, e sarà per sempre, un souvenir donato dalla ambasciata rumena a mio padre, che era stato invitato con altri amici disegnatori e umoristi nel paese balcanico. Una bambolotta - femmina- con barba posticcia vestita con abiti folk maschili e gilet pelliccioso, una Conchita Wurst in versione pastore. Alla fine l'abbiamo regalata alla signora che veniva a fare le pulizie a casa, rumena, che l'ha invece apprezzata molto. Anche se brutta, le ricordava casa. La nostalgia può trasformare, direi rendere meravigliosa, anche una Barbie barbuta.


Monica Bruna

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