Messaggio dal bunker:
Cari fratelli (o cittadini, se fate professione di laicità) il cinema è sempre stato un gesto collettivo e collettivizzante e in questi giorni in cui si sprecano gli appelli all’auto-reclusione e un malinconico Papa Francesco solca Piazza San Pietro deserta sotto il diluvio universale dopo la benedizione urbi et orbi, tutti gli eventi sociali non sembrano solo rimandati ma aboliti dalla quarantena.
La profilassi barra la prassi (anche) cinematografica così il critico, militante o militarizzato visto il clima, abbandona la sala ma non la visione e prosegue la sua opera di mediazione non con l’home video ma con l’alone video. Pupi Avati esorta la Rai a fregarsene del diktat commerciale e a riproporre cultura, Netflix e Sky spopolano e persino Pornhub “viene” incontro al tricolore; bagliori catodici illuminano le piazze vuote e in varie città qualcuno proietta pellicole sulle facciate dei palazzi.
Se il cinema è una malattia il vero contagio non necessita d’un luogo fisico ma d’un semplice schermo, seguendo la lezione di Cronenberg senior l’immagine cerca un corpo e vi s’insinua come un tumore ma nella retorica nazional-pop(olare) dell’inno di Mameli urlato a squarciagola dai balconi il cinema può diventare un’individuale resistenza alla colonizzazione d’un dolore che deve restare privato (sostantivo e participio passato).
“Io sto bene, io sto male, io non so come stare”, cantava il Ferretti prima della conversione così al generalista “io sto a casa” non resta che opporre l’anarchico “io sto a caso”.
Dissolvenza.
Antiviral
“Visions coalesce and become flesh”
(Videodrome, David Cronenberg)
Quando nel 2012 Brandon Cronenberg girava il disturbante “Antiviral” seguendo le orme concettuali del padre, lo spettro d’una possibile pandemia già s’aggirava negli ambienti clinici visto che il primo caso di “spill-over”, o salto di specie, risalirebbe addirittura al 1997, quando un bambino di Hong Honk morì di Corona virus.
Lontano dall’allarmismo igienico-sanitario e dalla polemica politica, il figlio d’arte sembrava più affascinato dal concetto di mutazione e dal legame patologico fra celebrità e mass-media.
In un futuro prossimo, quello che trasforma in gerundio i peggiori incubi degli ultimi trent’anni, “The Lucas Clinic” vende a un’umanità ormai intossicata dallo star system le malattie di attrici, cantanti o eroi sportivi, allegandole a innesti di pelle e presentandole in eleganti cofanetti il cui prezzo varia in base alla gravità del male.
In una società che più che liquida potrebbe definirsi drenata la questione bio-etica viene fagocitata dal copyright e il giovane Syd (Caleb Landry Jones), impiegato modello della Lucas, decide di trasgredire ai regolamenti aziendali che impediscono ai dipendenti di portarsi a casa i virus delle celebrità, iniettandosi una dose dell’ultimo brand dell’icona Hannah Geist.
Quando quella che doveva essere una semplice influenza inizierà a peggiorare e in tv sfileranno le immagini dell’improvvisa morte dell’attrice, Syd comincerà la sua personale corsa contro il tempo, che lo proietterà in un clima di surreale spionaggio industriale e mentre il suo corpo mostrerà i segni d’un deperimento sempre più veloce la verità lo colpirà allo stomaco in tutta la sua clinica banalità: un suo collega incaricato di “esportare” l’influenza di Hannah per conto della Lucas ha rubato il virus per poi rivenderlo a una società rivale che dopo averlo modificato glielo ha fatto rinnestare riducendola in fin di vita.
Ormai allo stremo delle forze Syd verrà rapito e chiuso in una stanza dove, incorniciato da gigantografie della Geist e ripreso da una telecamera a circuito chiuso, verrò tenuto in vita per colmare “lo scomodo distacco narrativo fra la vita di Hannah e la sua morte”. Ora gli aguzzini dell’azienda antagonista potranno documentare il suo peggioramento progressivo per darlo in pasto ai fan ansiosi di sapere com’è morta la propria beniamina.
Ma nel finale, gelido come la vaschetta d’un anatomopatologo, il progetto “after life” consentirà al virus Hannah Geist di sopravvivere al corpo che lo ospita donandogli una sorta di eternità microbiologica che sublima il concetto umano di bellezza: “quando si trova una bella donna non si pensa che alla superficie, ma se la rigirassi come un guanto tutto il mondo sarebbe disgustato. È bizzarro. Non siamo ancora in grado di accettare la nostra totalità”, dichiarava Cronenberg padre in un’intervista di qualche anno fa.
Il Dr Lucas, tycoon dell’omonima azienda “for the true connoisseu”, in una scena introduttiva del film dice al giovane Syd, prima di cedergli il lavoro dell’inaffidabile Derek, che le celebrità non sono persone ma allucinazioni collettive e che speculare sull’effimerità del loro successo non è criminale poiché lo status di icona, non essendo un risultato ma una semplice proiezione popolare, è sempre meritato, quindi commerciabile.
In quest’ottica, che ricorda l’universo distopico di James Ballard (scrittore legato a doppio nodo all’immaginario di David Cronenberg) non è il mito a produrre la propria santificazione mediatica ma l’esatto contrario al punto che “la morte diventa un semplice articolo di copertina”.
Se Brandon Cronenberg si fosse limitato a questo, “Antiviral” sarebbe stata una semplice celebrazione paterna e un rispettoso omaggio alla sua grammatica corporale, ma questa pellicola va ben oltre, innanzitutto dal punto di vista estetico.
In un’atmosfera bicolore (e bitonale come la sirena d’un’ambulanza) il bianco assoluto delle riprese si scontra dialetticamente col rosso dei capelli di Caleb e Hannah, una rigidità autoriale confinante col manierismo indugia impietosamente sulla fisicità cadaverica di Caleb Landry Jones, l’asettico pallore della celebrità diviene reale solo attraverso il sangue che a sua volta assume una piena consistenza ematica solo sul sudario dei cuscini; in locali affollati i fan divorano bistecche ricavate dalle cellule dei divi (“non capisco perché questo non venga considerato cannibalismo”, dice Syd) e lo stesso cognome di Hannah, “Geist” (spirito in tedesco), sembra voler sottolineare come alla base dell’antropofagia delle celebrità si celi quasi una smania animista.
Quando Thomas Mann ne “La Montagna Incantata” scriveva la sua apologia del corpo malato che è “corpo due volte”, concetto ripreso in Italia da Gesualdo Bufalino con la sua “Diceria dell’Untore” e più di recente da Valerio Magrelli ne “Il Condominio di Carne”, creava quel filone novecentesco (fortemente influenzato dalla nascente psicoanalisi) che ergeva la nevrosi a paradigma letterario; Brandon Cronenberg nel suo affresco bidimensionale racconta un mondo in cui gli esseri umani per accorciare la distanza coi propri miti arrivano a nutrirsi delle loro malattie solo che la sua non è una semplice metafora.
Quando vediamo i clienti di un ristorante divorare bistecche col patrimonio genetico delle celebrità di fronte a una loro immagine patinata si tratta d’un’eucarestia in cui il corpo di Cristo non è più solo un’ostia: la sindone è il volto e il volto è la sindone.
Dall’immagine di Videodrome che diventava corpo “programmando” lo spettatore perché “la realtà è(ra) meno della televisione”, ora l’immagine può infettarci ma noi possiamo possederla completamente solo nella morte, e in fin dei conti il programma “after life” non è altro se non il prometeico avvicinamento fra divinità e uomo attraverso un’immortalità virale.
Lo stato di grazia del divino è l’immobilità ma la sua incarnazione nell’umano può avvenire solo attraverso la malattia: “i tulipani sani sono di un solo colore, quelli screziati (i più belli) sono frutto d’un’infezione virale”, dice il Dr Lucas.
“Dicono sia un’infezione presa in Cina”, mormorano i dipendenti della Lucas Clinic in attesa delle consegne ma poi scopriremo che si tratta d’un virus creato in laboratorio e la messa in scena della morte di Hannah Geist, che riecheggia di quel trauma collettivo cui accennava Ballard descrivendo lo shock del popolo americano di fronte all’omicidio Kennedy immortalato dal fotogramma di Zapruder, trasforma anzi muta la pandemia in pandemedia: le immagini infettano viralmente il web che non sa più distinguere la realtà dalla finzione se non nella morte.
La riproduzione seriale degli oggetti di consumo diventa cannibalismo: mangiamo bistecche di Warhol invece di un barattolo di zuppa Campbell’s.
La geniale intuizione dell’applicazione “Ready Face” che consente agli operatori della Lucas di fissare “il volto del virus” imprimendolo sulle sick box da consegnare al cliente dona lo status di celebrità non all’organismo ospitante ma al virus stesso. Nell’era delle icone edibili sono i volti deformati baconianamente a testimoniare la nuova star che satura il mercato: la pandemia.