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| 04 agosto 2019, 05:00

Fez Willer e il cibo a mano libera

Bastano cinque minuti fra le rade siepi e l’erba nuda per ribadire la pochezza del post-moderno rispetto allo sfarzo cinquecentesco

Fez Willer e il cibo a mano libera

Le ragazze addette alla biglietteria di Palazzo Vitelli sembrano sonnolente tortore su un cornicione mentre spiegano in inglese scolastico ad una coppia anglosassone (involontari testimonial dei pantaloncini in tinte pastello) il senso del tour roteando fra le mani la guida munita di didascalie: all’esterno un sole già rovente solletica la facciata impreziosita dagli affreschi del Gherardi su disegni di Giorgio Vasari e gli stemmi nobiliari del leone e del vitello vigilano l’antico giardino all’italiana che si dice contenesse una delle migliori collezioni di piante esotiche del Rinascimento.

Bastano cinque minuti fra le rade siepi e l’erba nuda per ribadire la pochezza del post-moderno rispetto allo sfarzo cinquecentesco: l’assenza di giovani fra le mura del Palazzo della Cannoniera che ospita una pinacoteca seconda solo alla Galleria Nazionale dell’Umbria è la riprova che in un mondo a breve scadenza l’immortalità non ha più valore e la bellezza ha senso solo se può essere consumata.

Eppure la speranza alberga proprio in chi non sa di possederla.

Salendo i ripidi gradini affrescati alla grottesca coi consueti segni zodiacali, l’araldica coeva e le figure mitologiche, colpisce la figura di Aristotele cavalcato dalla cortigiana Fillide, soggetto presente anche a San Gimignano: nell’affresco la donna siede sulla schiena del filosofo accarezzandogli la zazzera bruna e tirandone le redini come a un destriero da ammansire, eterno simbolo del trionfo della passione sulla razionalità al punto che si narra l’uomo finisse rovinato per mantenerla e che Alessandro Magno, suo discepolo, si divertisse un mondo a sbirciare il precettore vittima dei capricci della bella ragazza.

Due Madonne con bambino del Trecento (quando l’Umbria era il centro della Cristianità quindi del mondo e la Toscana artistica non era stata ancora inventata al punto che nel Quattrocento lo slogan sarebbe diventato: “Tuscany is the new Umbria”) allattano il pargolo con il seno che fuoriesce in assenza di prospettiva dal push-up bidimensionale dell’iconografia prerinascimentale, il solito delirio di natività e deposizioni, un Cristo di ispirazione fiamminga in broccato rosso e perle e infine due Giovanni Battista che fanno le corna.

Approfondendo scopriamo che questi santi capelloni che sollevano indice e mignolo (talvolta anche il pollice) non sono dei metallari ante-litteram né i precursori d’una Woodstock da Nuovo Testamento ma che il loro gesto di valenza scaramantica è in realtà antichissimo al punto che lo si può ritrovare su sculture e bassorilievi etruschi ed ellenici, più raramente romani. In contesti funerari serviva per accompagnare il defunto all’Aldilà donandogli la forza dei tori (le corna) ma anche la fortuna della cornucopia; secondo alcuni studiosi si troverebbe anche nel Cristianesimo Ortodosso seguendo l’abitudine di riprendere i mudra orientali, e cioè il modo di canalizzare l’energia dei chakra intrecciando le dita.

Uno fra i più celebri mudra (Yoni) consiste nel congiungere indici e pollici componendo una figura che ricorda (ai non maliziosi) lo stemma della Renault.

Dopo la celeberrima trinità di Raffaello, maculata dalle brune efelidi del tempo (anche perché fu portata in processione all’aperto per almeno due secoli) e come arrugginita per rimozione di pittura dalle anonime dita della Fede, passiamo alla finestra da cui Sora Laura, l’amante ufficiale del Vitelli, si sporgeva lasciando cadere fazzoletti che cuciva personalmente e che i giovani e malcapitati amanti le riconsegnavano cadendo vittime della sua bellezza.

Dopo aver goduto delle sue grazie essi venivano fatti scendere attraverso un’uscita segreta che in realtà dava su un profondissimo pozzo col fondale irto di lame: la leggenda vuole che il fantasma della donna, inquieto per il troppo male causato, si aggiri ancora per le stanze del Palazzo e all’ingresso le amabili tortore vendono i turistici fazzoletti per la modica cifra di euro sei cadauno.

Poco prima di uscire osservare tra gli affreschi della sala grande due figure braccate da un cavaliere su uno sfondo grigio: i loro corpi sembrano sfaldarsi per la prospettiva tremando come torce umane e anticipando i bizzarri disegni del Don Chisciotte di Dalì, è come se il pittore li avesse privati d’un’anima di luce e d’un’identità cromatica spogliandoli fino alla ferita del segno.

Quando raggiungiamo la storica pizzeria Roma “Da Fez e Mario” una pioggia inclinata a quarantacinque gradi pugnala il centro storico di Città di Castello e la notte allunga le sue zampe facendosi le unghie sui palazzi, i clienti che oscillano dal ricco imprenditore al manovale appena uscito dal lavoro, salutano il Fez a piena voce e lui, in pantaloncini e grembiule bianco, li ricambia seminando battute fra i tavoli.

È il responsabile della carne che vediamo esposta al bancone antistante la griglia come la carta-roccia della Monument Valley mentre delle pizze si occupa il Mauro fin dagli esordi (il 5 Maggio 1986), omaggiati dall’omonima poesia manzoniana.

Sediamo e ordiniamo una pizza mentre la piccola cucina (pulitissima) vomita camerieri come la Cinquecento delle barzellette e fra questi notiamo una versione mignon del Fez, con tanto di occhiali seppiati e timbro di voce roco; è lui il solo a capire il senso della nostra t-shirt: “Sturm und Drang and rock’n roll”, rimasta orfana di commenti dal conio.

“Romanticismo e Rock’n Roll. Bella.”

“Cosa sono tutti questi fumetti alle pareti?”

“Siamo da sempre sponsor del Tiferno Comics e sono passati da qui praticamente tutti i maggiori disegnatori italiani. Ci sono anche foto di mio padre con Pratt, Manara e via dicendo. Lui ha persino recitato nella parte di Joker in un cortometraggio. Pensa che li legge ancora.”

“Cosa?”

“I fumetti.”

“Solo quelli che meritano”, tuona Fez Senior paonazzo per brace e fede politica.

In un tavolo d’angolo, merlati da un fortilizio di Ichnusa, due sardi assaltano un crostone e il pittoresco cuoco si siede con loro brindando all’isola con deferenza negli occhi.

“Per me i sardi sono gli indiani d’Italia. Tra qualche anno vi metteranno nelle riserve.”

Mentre tuffiamo l’immancabile fritto in una ciotola di maionese e il Fez argomenta le sue tesi extraparlamentari con gli occhiali appannati osserviamo in un angolo … un salame che cammina. Un salame provvisto d’un paio di scarpe è una cosa davvero strana ma non tanto strana quanto un cavallo che si abbevera di Tequila all’esterno o un cow boy dal ridicolo cappello che ordina camomilla, d’improvviso la realtà si scansiona in strisce e il Fez, in stivali e camicia gialla ordina alla sua cameriera: “una bistecca alta tre dita e una montagna di patate fritte … ah, non dimenticare due fette di torta di mele per finire.”

“Con chi ho il piacere …?” balbettare mentre i sardi si trasformano sotto i nostri attoniti occhi nei fratelli Dalton di Lucky Luke.

“Fez. Fez Willer. Per servirla.”

Un cinghiale allo spiedo rosola accompagnato dallo sguardo innamorato di Obelix mentre Braccio di ferro litiga con Fez Junior: “Non li dovete saltare voi gli spinaci, li faccio saltare io!!!”

“Il mondo non è fatto a cassetti ma a strati di pizza”, dice Fez Willer mentre un mappamondo rotea impazzito e lui lo affetta con una scimitarra lasciando cadere sui piatti teorie di capricciose e quattro stagioni, boscaiole e francescane.

“Chi siete voi?” domanda poi a quattro pezzi di formaggio provvisti di gambe e braccia.

“Ma i quattro formaggi, ovviamente.”

“Saltate dentro!”

“Ho le fette di salame sugli occhi!” grida un uomo obeso di fronte a una pin-up che flirta con uno dei Dalton.

Il Fez le infilza con un coltello e le depone su una Margherita: “ Ora è una diavola”, sorride a una bambina con treccine così lunghe che finiscono in un gomitolo.

“Ci vedo!!” urla il grassone, “Miracolo!!”

Dal soffitto Gesù discende in altalena fissato da un centinaio di nasi di Mordillo e dalla seducente Sora Laura disegnata da Manara mentre la nostra pizza si alza in piedi e se ne va.

“Ma cosa fai?”

“La pizza da asporto”.

Usciamo nella sera fissando la luna tatuata dal pipistrello di Batman mentre la Morte di Corrado Roi ne falcia i raggi sul selciato e due ragazzi bisticciano in un vicolo.

Vignette sgomitano come auto in un ingorgo e dozzine di personaggi minori premono per entrare nella tavola di Andrea Pazienza.

“Colas la vita è un brutto posto”, sillaba l’aquilina e allampanata silhouette di “Zanna” Zanardi.

“Devi riprenderti socio”.

I due sono seduti a gambe intrecciate di fronte a una Audi.

“Colas il futuro è un brutto posto.”

“Noi non abbiamo futuro Zanna, siamo solo dei fumetti. Avremo per sempre vent’anni.”

“Io in un posto in cui le macchine non hanno più autoradio da rubare non ci voglio stare.”

“Ruba direttamente l’auto.”

Vignetta muta di Zanna che afferra ghignando Colas per il bavero della giacca di pelle.

“Non sono mica un criminale IO. Sono giovane.”

Dylan Dog suona al clarinetto “Il trillo del diavolo” accompagnato al sax da Luigi Tenco, di spalle lungo un binario morto, mentre Fez Willer si allontana a cavallo dopo aver chiuso la pizzeria e in un angolo Adamo ed Eva  accettano una mela da un serpente-salame di Jacovitti.

Groucho, seduto sui titoli di coda e masticando un sigaro: “La pitonessa al pitone: come mi preferisci amore? Lui: muta”.

Germano Innocenti

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